Corpo di donna

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La ragazza entrò lentamente al pronto soccorso e s’avvicinò ad un infermiere che stava ripulendo una barella. Lo fissò per qualche secondo senza espressione, come una tossicodipendente sulla soglia di un’overdose.

«Ha bisogno di qualcosa?» le chiese distrattamente il paramedico.

Nessun suono. L’aria era impregnata di disinfettante, come se qualcuno avesse voluto sterilizzare perfino i pensieri che continuavano a fluttuare senza trovare pace.

La ragazza era immobile, catturata dentro uno specchio in procinto d’essere frantumato in milioni di pezzi. Tremava leggermente, ma le sue labbra restavano serrate, incapaci di accompagnare fuori qualsiasi parola.

Di fronte a quel muro di silenzio, l’uomo fermò malvolentieri il suo lavoro e si decise a chiederle con più decisione se si sentisse bene. Lei, spossata come se trasportasse il carico di un mulo, dopo aver abbassato gli occhi, gli rispose con una sola parola: «Stupro».

All’udire quella laconica dichiarazione, l’infermiere sbiancò come l’abito che indossava. Non rispose, ma le indicò una panchetta dove c’era un posto libero e corse via lungo un corridoio ricoperto da mattonelle verdastre.

Primo piano del viso di una donna nascosto dietro un velo

Una volta seduta, sollevata da quella prima incombenza, la giovane ancora senza nome iniziò a guardarsi intorno: accanto a lei c’era una signora anziana, piegata in avanti come una lampada da tavolo. Nelle mani teneva una borsetta e una busta piena di referti. Ogni tanto la sua testa oscillava su e giù, come se annuisse ad un immaginario dispensatore di beni e mali che, ritto di fronte a lei, le raccontava la sua sorte.

Più a sinistra, quasi a ridosso del portone d’ingresso, si trovavano due ragazzi con il viso contratto dal dolore. Avevano i capelli appuntiti con il gel e vestivano jeans consumati e magliette strappate ai due lati. Piangevano come neonati.

A fianco dei due feriti, banalmente incapaci di immedesimarsi nella parte, due ragazzine cercavano di consolarli massaggiandogli le braccia doloranti. I loro occhi grandi, quasi di bambine, e quei gesti così goffi e distanti, le facevano apparire flebili ed evanescenti come i personaggi dei vecchi cartoni animati. Più avanti, invece, con lo sguardo torvo e un nervosismo che trapelava da ogni movimento, i genitori dei due, con i volti stanchi, imprecavano in silenzio attendendo il loro turno.

Altra gente, nelle panche lontane, emetteva tenui gemiti di sofferenza e si voltava a cercare il conforto dei parenti. Solo lei continuava a tacere, senza comprenderne la vera ragione.

Il pronto soccorso le apparve d’un tratto come il luogo finale della resa dei conti, molto più pregnante e inappellabile del giudizio universale. I derelitti, i perdenti, tutti coloro che non avevano saputo sopportare il dolore al di fuori di quelle mura, si ritrovavano inevitabilmente lì, seduti come i clienti di uno squallido bordello, in attesa che la grazia scambiasse, sempre in eccedenza, un po’ del loro coraggio con la restituzione di un frammento di salute.

Non appena realizzò queste tristi considerazioni, improvvisamente, notò di essere osservata da molti dei pazienti: «All’inferno è da immorali trattenere le proprie urla» pensò abbassando lo sguardo per la vergogna «Forse dovrei gridare, ma non ne sono capace. Non ricordo di esserlo mai stata».

Il brusio indistinto delle voci annegò nell’oblio ogni altro pensiero e la forma regolare delle piastrelle catturò la sua attenzione come un gioiello esposto in una vetrina di lusso.

Dopo qualche minuto l’infermiere tornò in compagnia di una giovane dottoressa e di un ispettore di polizia con la camicia che gli fuoriusciva dalla cintura dei pantaloni.

«Venga con noi signorina, la prego» le disse quest’ultimo prendendola delicatamente sotto il braccio. Aveva il fiato impregnato di aglio e di tabacco scadente.

Entrarono in un piccolo ambulatorio con un lettino e pochi altri mobili. Davanti alla finestra c’era una tendina malconcia che lasciava intravedere la strada; la ragazza la fissò e pensò al suo corpo bianco nella penombra della sua camera.

All’esterno, proprio accanto ad un albero che spaccava l’asfalto con le radici, un gruppo di portantini tirava fuori una barella da un’ambulanza. Era un uomo di mezza età che si teneva la testa con la mano bendata, mal celando una smorfia di dolore ammutolita solo dalla distanza: ancora una volta era solo lei l’unica a voler occultare lo strano oggetto della sua sofferenza.

«Come ti chiami?» le chiese la dottoressa.

«Marzia».

«Marzia… e poi?»

«Fornari».

«Bene Marzia, poco fa hai detto all’infermiere una cosa molto grave» continuò la donna «Capirai che la presenza dell’ispettore si è resa necessaria per garantire un intervento immediato».

«Certo».

«Quindi confermi di aver subito una violenza sessuale?»

«L’ho già detto» rispose vagando con lo sguardo in quel gabinetto così asettico.

«Avremmo bisogno di conoscere qualche dettaglio» intervenne il poliziotto «Mi rendo conto che ciò può essere penoso, ma capirà che è indispensabile per fermare subito il colpevole».

Silenzio. Si udiva solo il fruscio dei camici e un insieme di respiri affannosi.

«Non riesci a fare uno sforzo?» le chiese la dottoressa.

«Non c’è alcuno sforzo da fare… L’ho già detto».

L’ispettore iniziò a perdere la pazienza: «Signorina, le ripeto che comprendo quanto possa essere spiacevole ricordare certi eventi, ma lo sforzo è proprio necessario. Conosceva il suo aggressore?»

«Poco».

«Avevate una relazione?»

«Forse…Chissà… Ma adesso non ne sono certa».

L’infermiere si picchiettò la tempia con l’indice come se volesse far capire agli altri che la ragazza era fuori di testa.

«Va bene» tagliò corto la dottoressa «Prima di proseguire con le domande, credo sia meglio fare una visita approfondita». Poi, rivolgendosi ai due uomini, aggiunse: «Potete avere la compiacenza di lasciarci sole?»

«Certo, certo» bofonchiò l’ispettore prendendo per un braccio l’infermiere «Andiamo a prendere un caffè. Aspetteremo il suo responso qui fuori».

Rimaste da sole nell’ambulatorio, la dottoressa chiese a Marzia di spogliarsi e di stendersi sul lettino.

«Quella tenda è rotta» sussurrò la ragazza mentre si coricava.

La dottoressa volse lo sguardo verso la finestra: «Sì, è rotta… Ma qui non ti vedrà nessuno, puoi starne certa».

«Ma io ho visto all’esterno poco fa» ribatté Marzia.

«D’accordo. Se temi di essere notata, sposterò il paravento in modo da nascondere il lettino. Sei più tranquilla così?»

«Sì».

La ragazza si sfilò gli slip e divaricò le gambe come se fosse in procinto di partorire. La dottoressa, indossati un paio di guanti fini, iniziò a palparla e ad osservarla da vicino.

«E’ certa che il paravento compra tutto?»

«Sì, stai tranquilla» rispose la donna senza neanche alzare lo sguardo.

«Mi sento osservata» mormorò Marzia stringendo leggermente le gambe.

«L’unica persona che ti sta osservando sono io, un medico. Rilassati, chiudi gli occhi e non pensare a nulla».

Obbedì. Serrò le palpebre e si rifugiò nel buio.

Anche sua nonna glielo consigliava ogni volta che i suoi familiari litigavano. Così lei, giorno dopo giorno, aveva lentamente compreso che un mondo privo di occhi che lo squadrano e orecchie che lo ascoltano scompare d’incanto come se non fosse mai esistito.

Perdeva perfino la dignità di oggetto, dato che nessun individuo lo avrebbe mai preso di mira nei suoi discorsi: era il nulla, quel vuoto indefinito di cui si conosce la porta d’ingresso senza mai poterla varcare anche solo per dare una sbirciata. Marzia ne era sempre stata sia attratta che spaventata.

Era uno sgabuzzino dove accatastare tutte le vecchie foto cariche di sofferenza, ma era anche il complemento dell’unico mondo da lei conosciuto. Relegare lì ogni residuo della sua esistenza significava ritrovarsi sola, accanto a case, strade, automobili, alberi, ma deprivata del dono di guardare negli occhi chi forse avrebbe potuto fare altrettanto con lei.

Così, tra lo strillo di una zia e un improperio di suo padre, Marzia, per paura di rimanere in trappola, si risvegliava, osservava i frantumi della sua realtà attorno a sé e poi, come un mendicante ancora affamato, tornava al suo buio.

La dottoressa passò un tampone all’interno della vagina: «Ti faccio male?» le chiese.

«No, non sento nulla» rispose la ragazza tenendo gli occhi chiusi.

«Bene. Abbiamo quasi terminato. Ma, se non ti causa troppo disagio e se lo ricordi, puoi dirmi se l’uomo che ti ha violentata ha usato un preservativo?»

Marzia rimase in silenzio e la ginecologa interpretò quell’atteggiamento come una risposta affermativa.

In realtà, la domanda aveva disseminato il panico nella mente della giovane: «No…» pensò facendo rivivere nella memoria la bizzarra scena di una recita scolastica «O forse sì…» ma non disse nulla.

Mentre la dottoressa si toglieva i guanti e la invitava a rivestirsi, l’ispettore bussò alla porta.

«Un momento!» esclamò il medico affrettandosi a chiudere tutte le provette. All’esterno si udì un borbottare confuso, come se l’unica vera formalità di tutta quella faccenda fosse proprio la visita ginecologica.

«Marzia, posso chiederti una cosa?» disse ad un tratto mentre si sfilava il camice.

La ragazza si voltò di scatto: «In che senso?» obiettò «Non capisco…»

«Stai calma» rispose la dottoressa per tranquillizzarla «Ho bisogno soltanto di capire».

«Certo, certo…» bisbigliò Marzia.

«Bene» iniziò la donna sedendosi proprio di fronte al volto pallido della ragazza «Quando hai parlato di stupro, avevi ben chiaro cosa intendevi dire?»

Marzia strizzò gli occhi: «Non… Non capisco…»

«Eppure la domanda è molto chiara… e semplice».

Le due donne si fissarono in silenzio e, per pochi secondi, la storia smise di lasciarsi soggiogare dalla lingua per donarsi al puro sguardo.

«Non lo faccia entrare» mormorò Marzia «Non lo faccia entrare, dottoressa. Quell’uomo assomiglia così tanto a mio padre…»

La ginecologa le sorrise, si alzò, uscì fuori dalla stanza e si richiuse la porta alle spalle. Rientrò dopo pochi istanti: «Puoi stare tranquilla Marzia. Ho detto all’ispettore che ti ho somministrato un leggero sedativo, ma non posso lasciarti andare via senza il suo consenso».

«Immagino».

«Questo non ha molta importanza» la interruppe la donna «Io preferirei invece sapere cosa ti è successo».

Marzia vagò con lo sguardo sui pochi mobili della stanza, finché non si vide riflessa in un piccolo armadietto con le ante a vetri. Ebbe paura. Il suo corpo la osservava dal profondo di una coscienza aliena.

«Uno stupro» sussurrò stringendo le gambe sino ad unire le ginocchia.

«Uno stupro» le fece eco la dottoressa «Questo lo hai già detto, ma prima di quel momento cosa è accaduto… realmente». Pronunciò l’ultima parola come un soffio, lasciandola vagare libera nell’aria secca dell’ambulatorio. Marzia se ne accorse subito e alzò il viso pallido sgranando gli occhi castani.

«Lei non mi crede, vero?»

«Certo che ti credo. Per questo vorrei sapere da te come si sono svolti i fatti».

«Quell’uomo… Quell’uomo sembra proprio mio padre» continuò come se non avesse udito le parole della donna «Ho già detto tutto. Non voglio dire altro! Lo mandi via, la prego!»

«Stai calma! L’ispettore è già tornato al suo posto di guardia. E’ un brav’uomo, lo conosco bene. Forse un po’ scorbutico, ma è il suo mestiere. Puoi stare tranquilla: desidera solo il tuo bene».

«E’ come mio padre» ripeté la ragazza «Lo mandi via».

«Non ti trovi bene con tuo padre?» chiese la ginecologa facendo finta di non volere dar peso a quella monotona ripetizione.

Il padre di Marzia, litigando con tutti i suoi parenti stretti, si era sposato vent’anni prima con una donna molto più giovane che, però, subito dopo il parto della bambina aveva iniziato a manifestare i sintomi di un gravissimo malessere.

Morì dopo meno di un anno, lasciando quell’uomo quasi anziano e la piccola ancora incosciente in uno stato di insanabile confusione. Il marito si sentì truffato dal fallimento di quel sodalizio molto più che da un tradimento, perché in quest’ultimo caso egli avrebbe potuto usare tutta la sua influenza per cercare di battersi ancora contro il destino, mentre trovarsi di fronte al cadavere grigiastro della moglie era una beffa che non riusciva proprio a mandare giù.

Nella camera mortuaria dell’ospedale, l’aveva osservata sempre restando seduto vicino alla porta, cosicché tra lui e la sua giovane consorte erano presenti due bare di altrettanti sconosciuti. Non aveva né pianto né provato alcun dolore: era arrabbiato e la nebbia che avvolgeva i suoi pensieri rendeva minuscolo il pianeta ove egli poggiava i piedi.

Tutto il resto era secondario, accidentale, perfino di cattivo gusto. I fiori, le candele, i fregi sulle bare, la gente che si raccoglieva attorno ai catafalchi per piangere con discrezione, ogni minimo dettaglio di quel posto era solo un ulteriore tentativo di distrazione dalla frode che quell’uomo aveva, ormai irreparabilmente, subìto.

Con la piccola Marzia il rapporto era stato comunque sempre tranquillo, costretto all’interno dei monotoni binari della quotidianità, ma nello stesso tempo, oltremodo formalizzato ed eretto su una separazione decisamente più profonda di qualsiasi divario generazionale.

«Non sto smaniando per il sangue del mio sangue» soleva ripetere ai pochi amici che continuavano ad ascoltarlo «Ne ho a sufficienza dentro le mie vene… Non me ne serve altro!»

La bambina non capiva il vero senso di quelle tristi parole, perché esse, al di là di ogni interpretazione, si fondavano sul non-senso di una perdita inammissibile. E’ vero che Marzia possedeva già da piccola i lineamenti della mamma, ma i suoi occhi erano drammaticamente diversi: parevano piuttosto laghetti giapponesi, limpidi, screziati, ma profondi poco più d’una mano. Quale fiamma d’insaziabile desiderio poteva dunque annidarsi all’interno di essi?

La madre, che aveva scoperto veramente solo attraverso le fotografie, al contrario, era una donna compiuta, un essere che aveva trasceso la sua femminilità per giungere in quel sublime harem ove regnano i perfetti e inarrivabili complementi della statuaria mascolinità.

Il suo sguardo perennemente enigmatico, sempre un po’ malinconico perfino nei momenti più spensierati e, soprattutto, i suoi occhi scuri, immensamente profondi, capaci di accogliere in sé tutta forza esplosiva che la sola immagine risvegliava nell’amante, erano state la cause che certamente avevano spinto il padre di Marzia a spezzare ogni legame col passato e a ricominciare la sua vita daccapo.

Quell’uomo si era lasciato scavare all’interno con un enorme cucchiaio d’argento e ogni volta che un frammento di sé veniva sradicato dalla forza magnetica di quella donna, egli godeva come al culmine di un lunghissimo amplesso. Gli bastava accarezzarla, baciarla o semplicemente osservarla in silenzio, per sentire quel vuoto riempirsi come una diga e quando finalmente facevano l’amore, il suo cuore impazziva sino quasi a sospendere il battito per non interrompere quella magica e inalienabile congiunzione di desiderio e godimento.

«Pensi che tuo padre non comprenda ciò che ti è accaduto?» seguitò a chiedere la dottoressa.

Marzia scoppiò in un riso isterico: «E come potrebbe?»

Ogni tanto l’uomo le raccontava della madre, ma non come normalmente fa un genitore con una bambina; egli piuttosto continuava ad esaltarne l’insostituibilità, l’errore imperdonabile della sua malattia e, soprattutto, il vuoto profondo che il suo fascino aveva creato in lui senza poi essere in grado di completare quell’opera tanto straordinaria quanto dolorosa.

Marzia ascoltava in silenzio. A volte capiva, altre no, ma era certa di una cosa: sua madre era stata una donna meravigliosa, mentre lei, insulsa e incapace perfino di comprendere il suo impedimento, non avrebbe mai potuto biasimare quell’uomo che tentava di rimodellare invano la realtà.

Un giorno, quando Marzia aveva dodici anni, dopo l’ennesimo volo pindarico di suo padre, con la naturalezza di una ragazzina, indossò una maglia di seta e una collana appartenute alla donna ed entrò nel soggiorno ridendo ed esclamando a gran voce: «Eccomi qui!»

Il padre inizialmente la osservò in modo distratto, poi divenne paonazzo, strabuzzò gli occhi e si avventò sulla figlia urlando: «Maledetta puttana! Come hai potuto tradirmi in questo modo? Come? Dimmelo!»

Subito dopo rimase come paralizzato e si lasciò cadere sul divano. Marzia tremava. Desiderava piangere, ma le lacrime le si erano asciugate. Corse via, si tolse di dosso la maglietta e la collana e si chiuse in camera sua.

Quando fu ora di cena, entrò lentamente in cucina e vide il padre, con un grembiule da chef intento a cucinare. Senza far rumore prese il suo posto e attese. Dopo che le portate vennero messe in tavola, l’uomo, ancora trasecolato, la guardò come il piatto che aveva di fronte e le chiese: «Hai riposto tutta quella roba?»

Marzia annuì senza fiatare. Il genitore, soddisfatto del risultato, dopo aver mandato giù un bicchiere d’acqua, accese il televisore e si lasciò inondare dalle battute grossolane di un telefilm.

«E’ pur sempre tuo padre» esclamò la dottoressa «Sei così certa che l’amore che prova per te non gli permetta di comprendere il tuo disagio?»

La giovane volse di nuovo lo sguardo verso la porta dell’ambulatorio.

«E’ chiusa!» sussurrò la donna «Stai tranquilla. L’ispettore non verrà!»

«D’accordo» rispose Marzia «Quell’uomo è proprio tale e quale a lui».

La ginecologa aggrottò la fronte: «Ma almeno puoi dirmi perché?»

«Mi ha guardato il seno. E poi le gambe, il sedere. Sentivo le sue mani sul mio corpo».

«E’ una brutta impressione» disse la donna «Ma non mi è sembrato che l’ispettore ti guardasse in quel modo».

«A lei no… certo».

«Ma tuo padre… Sì, insomma, tuo padre ti guarda in quel modo?»

Marzia scoppiò di nuovo a ridere: «Magari…» disse trasformando improvvisamente il suo sorriso in un pianto «Non certo nel modo che pensa lei… In realtà, mio padre non mi guarda affatto. Mio padre guarda il mio corpo e alla fine fa pure una smorfia di disgusto».

La dottoressa iniziò a non seguire più il suo ragionamento. Si alzò, aprì la finestra e prese una boccata d’aria. Poi, trasgredendo tutti i regolamenti, estrasse il pacchetto di sigarette e iniziò a fumare.

«Devo essere franca» esordì con un tono più aggressivo «Di una cosa sono più che certa, Marzia. Ovvero che tuo padre di sicuro non ti ha stuprata».

Si fermò di scatto come un perfetto meccanismo automatico e fissò la giovane con aria di sfida.

«Lei ha frainteso. Non ho mai detto che…»

La dottoressa la interruppe bruscamente: «Sono convinta che tuo padre non ti ha stuprata… E sai perché? Perché nessuno ti ha mai stuprata!»

Marzia rimase impassibile. Senza chiedere nulla, prese una sigaretta dal pacchetto poggiato sul tavolino e iniziò a fumare. Attorno a lei c’erano solo mobili bianchi, un lettino, una tenda malconcia e poco più.

«Già» rispose «Mio padre mi ripete sempre che sono goffa».

«Non mi sembri affatto goffa!» esclamò la ginecologa «Ma di certo sei bugiarda! Hai scherzato con una cosa molto grave e ci puoi scommettere che la prossima volta l’ispettore non sarà così accondiscendente!»

«Mi sta dicendo che lei lo ha convinto a tornarsene al suo posto di guardia perché io sono una bugiarda?» chiese Marzia spalancando gli occhi.

La dottoressa si passò una mano sulla fronte e abbozzò un sorriso sarcastico: «Avresti forse preferito essere accusata di simulazione di reato? O, nella migliore delle ipotesi, di essere presa per una matta da rinchiudere?»

«No» rispose la ragazza con un inespressivo filo di voce «Senza dubbio no».

Dopo aver finito la sigaretta, si rimise il maglioncino e il cappotto, prese la borsetta e, senza fare rumore, uscì nel corridoio. Non c’era nessuno. Tornò indietro verso l’ingresso del pronto soccorso e rivide le medesime maschere indossate da attori diversi. Molti piangevano o mostravano evidenti smorfie di dolore. Lei no, e non se ne spiegava il motivo.

Uscì in strada in silenzio, così come era entrata. Nessuno più la osservava. Camminò lentamente tra gli alberi che isolavano l’ospedale dal resto della città e, d’improvviso, si scoprì a ripensare a quella giornata. Guardò per terra, poi tra i cespugli, ma il vento la colpì in pieno viso, facendole alzare la testa come un soldato sull’attenti. Quando le venne voglia di piangere, capì che qualcosa di ben più forte la stava dominando e si lasciò cadere su una panchina, sentendo che la stanchezza si stava impossessando di lei come un insaziabile amante.

Lavorava da due anni in una piccola industria tessile della zona, l’unica che aveva resistito alla crisi mantenendo un organico quasi completo. Non amava affatto quell’impiego e lo riteneva noioso, ma non aveva trovato nulla di maggiormente appagante, anche se come spesso soleva ripetere, non si era poi impegnata granché in una ricerca più fruttuosa.

Il padre, da parte sua, non aveva fatto molto per aiutarla: la considerava inadeguata a qualsiasi compito e anche l’idea di quel lavoro l’aveva fatto ridere come un ubriaco, ripetendo che avrebbe fatto meglio a rimanere in casa. Ma d’altro canto, non se l’era sentita di imporre la sua volontà su una giovane che era “sangue di un sangue traditore” e quando questa si era vestita di tutto punto per presentarsi al suo primo giorno di lavoro, l’aveva baciata sulla fronte e le aveva semplicemente augurato buona fortuna.

Quella mattina, al contrario del solito, si era svegliata molto tardi e suo padre era già andato via senza curarsi di lei. Dopo essere scesa dal letto, si era precipitata in bagno, aveva indossato i pochi abiti a portata di mano ed era uscita correndo.

La fermata dell’autobus non era molto distante ed era possibile scorgere i veicoli anche in lontananza, così rallentò il passo e si rese conto, per la prima volta, di aver staccato la sveglia nel sonno, forse sperando inconsciamente che l’uomo la costringesse a destarsi per richiamarla all’ordine.

Davanti alla paletta degli autobus c’erano poche persone: la maggior parte di quelle che incontrava ogni mattina era già certamente partita. Guardò l’orologio: forse, con un po’ di fortuna, sarebbe riuscita ad arrivare prima dell’inizio canonico delle attività.

Cominciò a fare su e giù osservando i profili sbiaditi dei veicoli che imboccavano il viale. Contò decine di vetture, ma nessun autobus sembrava apparire all’orizzonte. Il tempo passava e le sue speranze si assottigliavano: «Arriverò in ritardo… per la prima volta» pensò provando un misto di paura e vergogna.

Subito dopo, tuttavia, aggiunse: «Ma in fondo non c’è nulla di male…» come se fosse in atto un contraddittorio tra due parti di sé «Può capitare. Posso sempre dire di aver avuto un malore. Cosa potranno farmi? Tutt’al più mi chiederanno di essere più puntuale… come sempre, d’altronde».

Mentre rifletteva, un autobus imboccò la strada e raggiunse la fermata. Marzia lesse sbadatamente il numero: 281. Quello che doveva prendere lei era il 776, che andava in direzione opposta. Rimase immobile, come se la mano gelida di suo padre le si fosse posata sulla spalla; poi, con uno scatto incontrollabile, saltò su e corse verso l’obliteratrice dei biglietti.

Si sedette in uno dei tanti posti liberi e iniziò a vedere il portone di casa muoversi sempre più velocemente alla sua destra e quindi scomparire. Sapeva che quell’autobus l’avrebbe condotta in un posto molto distante dal luogo ove si trovava l’azienda, ma ogni sua parola pareva sospesa: non sapeva giustificare a se stessa ciò che aveva fatto e si sentiva eccitata, come se i suoi ormoni fossero stati aizzati da quel gesto istintivo.

Rise. Si osservò riflessa nel finestrino e rise di sé che rideva. Non si curò delle persone che la osservavano prendendola per matta, anzi, scorgendo alcuni sguardi sbigottiti, rise ancora più sguaiatamente e, tornando a fissare il vetro screziato da qualche goccia, notò una minuscola lacrima scenderle lungo la guancia.

L’autobus si fermò al capolinea, in una zona periferica della città. Tutti i passeggeri scesero e così anche Marzia. L’aria era fresca e anche i rumori parevano assopiti: solo poche macchine passavano per il grande piazzale. Nel giro di pochi istanti, anche le persone che viaggiavano con lei si dispersero in tutte le direzioni, lasciandola sola in quel deserto di cemento.

Fece alcuni passi verso un grande edificio che si ergeva di fronte a lei ed ebbe l’impressione che quel luogo testimoniasse una strana forma di razzia. L’uomo era stato lì, aveva forse dato vita ad un ambiente sociale, civilizzato, ma poi, inspiegabilmente, aveva deciso di abbandonarne ogni angolo, lasciando che le sparute costruzioni si facessero a malincuore latrici del suo passato.

«Dove mi trovo?» pensò Marzia «Non ricordo di aver mai visto questo posto».

Notò l’insegna di un bar in lontananza e si diresse in quella direzione. Comprendeva, senza tuttavia riuscire a dargli un senso, ciò che stava facendo, ma ogni istante di quel frangente pareva essersi staccato dalla naturale linea del tempo per intraprendere un cammino autonomo. Ebbe paura, poi si sentì annoiata e quindi nuovamente in preda ad un panico sempre maggiore. Non desiderava tornare indietro, ma non capiva nemmeno perché continuava ad andare avanti.

«Dove sono?» ripeté sottovoce mentre accelerava il passo verso il bar.

Giunta di fronte all’ingresso, con sgradevole disappunto, si accorse che era solo un localino squallido, con vecchi cartelloni di gelati appesi fuori e un bancone di legno pieno di fessure. Non c’era comunque alcuna alternativa: entrò lo stesso e si sedette ad uno dei due tavolini che costeggiavano la parete.

Un uomo anziano, con l’aria distratta e malinconica, la fissò per un istante, forse incredulo di vedere a quell’ora una giovane donna ben vestita nel suo bar. Poi, con una voce rauca e disabituata al dialogo, le chiese: «Cosa desidera signorina?»

«Un caffè» rispose lei redendosi conto, ancora una volta, che non desiderava affatto bere caffè, ma che qualcosa in lei l’aveva spinta verso quella risposta impulsiva.

Mentre l’uomo le portava la tazzina, si accorse che un giovane di bell’aspetto sedeva a fianco di un vecchio frigorifero e leggeva un quotidiano stropicciato. Lo osservò con attenzione. Era alto, muscoloso, con vestiti abbastanza raffinati e un’aria che cozzava contro ogni dettaglio di quel posto.

«Sarà il figlio» pensò mescolando lo zucchero «O forse uno sfaccendato abituale… Eppure i suoi lineamenti sono così diversi da quelli del padrone. No, deve essere certamente qualcuno capitato qui per caso, come me».

Continuò ad osservarlo con insistenza, finché il giovane, fingendo un gesto naturale, volse lo sguardo verso la porta e notò Marzia seduta al tavolino. La ragazza istintivamente abbassò il capo, ma sapeva bene che quel posto era troppo piccolo per nascondere il suo disagio. Si pentì di averlo fissato per prima e, per cercare di dissimulare la vergogna, fece finta di immergersi nei suoi pensieri.

Il giovane, al contrario di lei, rompendo ogni indugio e riportandola alla realtà, non si limitò al contatto visivo e, dopo averla studiata per qualche attimo, esclamò: «Non ti ho mai vista da queste parti. O mi sbaglio?»

Marzia sobbalzò e iniziò ad arrossire: «In effetti è la prima volta. E, sinceramente, non so neanche come ci sono capitata». Poi fece un leggero risolino e abbassò nuovamente gli occhi sulla tazzina vuota.

In quei pochi attimi di distrazione, l’uomo lasciò il suo angolino e prese posto al tavolo accanto al suo. La fissò attendendo un segno, una parola e, quando lei rialzò il viso, poté scorgerne i lineamenti regolari incorniciati da un volto ovale e perfettamente equilibrato. I capelli biondi tendenti al castano, gli occhi inondati di un azzurro che si armonizzava con il verde e quel candore immacolato della pelle, gli apparvero come un contrappunto dove due voci, una grave e l’altra acuta, si inseguivano e giocavano tra di loro, lasciandosi vicendevolmente il posto e riprendendolo con ancora più baldanza. Marzia era indubbiamente bella, ma così come accadeva al suo aspetto esteriore, il suo animo, riflesso nelle movenze indecise, nascondeva due forze contrapposte: la prima orgogliosa delle privazioni che imponeva, e la seconda, decisamente più debole, perennemente in attesa di essere liberata, come un cane che passava le sue giornate legato ad un palo.

«Tu credi nel destino?» chiese d’improvviso il giovane abbozzando un sorriso.

Marzia tentennò: «Non saprei. Non ci ho mai pensato… Comunque suppongo di no, anche se talvolta non ne sono affatto certa. Quindi dovrei dire di crederci! Oddio, ma che sto blaterando!»

L’uomo scoppiò a ridere: «Già. Forse è proprio questo il senso del destino. Tutti, prima o poi, si scontrano con esso, ma nessuno è in grado di dire se esista realmente o no».

«Appunto» gli fece eco Marzia.

Egli annuì come se quella conferma rappresentasse un traguardo fondamentale: «Sai, prima stavo sfogliando un quotidiano e per qualche secondo ho avuto l’impressione che si trattasse della sintesi di un grande romanzo. Mi è apparso un filo conduttore che univa le notizie più disparate. Ti sembrerò matto, lo so, ma penso che sia molto più facile scoprire le trame del destino osservando il passato».

«Il passato è già scritto» osservò Marzia.

«Sì, certo. Ma quando si scopre una linea di connessione nel passato, non pensi che si dovrebbe almeno imparare la base di una regola sempre valida? Insomma, se oggi veniamo a conoscenza di certi elementi, non dovremmo essere certi che essi reagiranno rispondendo a leggi simili a quelle che insegna la chimica? In fondo il passato ce lo conferma».

L’uomo dietro al bancone osservò entrambi con uno sguardo riluttante. Per lui, passato, presente e futuro erano esattamente la stessa cosa: sveglia alle cinque del mattino, un locale semivuoto, pochi soldi, una moglie distratta e poco più. Quale strana alchimia avrebbe dovuto aver luogo nella sua vita per sovvertire quella regola? Nessuna. Era tutto fin troppo semplice. Non servivano interconnessioni o trame nascoste: bastava osservare le proprie rughe allo specchio e rassegnarsi.

Marzia, invece, cullata dalla voce del giovane e dalla strana verità che traspariva dalle sue idee, parve eccitarsi e, dopo quel breve scambio di battute, si rese conto di sentire più caldo del solito. Si tolse il cappotto, ma la sensazione non sparì. Guardò di nuovo l’uomo che le stava di fronte e, d’improvviso, capì di sentirsi euforica, come le era accaduto sull’autobus un’ora prima.

Ma non si trattava del normale piacere che si prova incrociando una persona di bell’aspetto. Era piuttosto una spinta che dal basso ventre le risaliva sino al seno e poi oltre, fino ad inondarle il capo e piroettare sulla nuca. Pensò che simili sensazioni fossero normali con il proprio amante nei momenti di intimità, ma quel giovane non l’aveva mai vista nuda e non si era neppure avvicinato. Come era possibile dunque quello straordinario senso di attrazione? E poi, si trattata davvero di attrazione? Inizialmente avrebbe scommesso tutto il suo stipendio su quell’affermazione, ma dopo pochi attimi non ne era più certa.

«E’ realmente lui che mi tira a sé o sono piuttosto io a sentire le urla gioiose di un vuoto che si riempie?» pensò passandosi diverse volte la mano sulla fronte.

«Non mi hai ancora risposto» intervenne bruscamente il suo interlocutore spezzando quella spirale così mortalmente seducente «Oh, scusa, intendevo dire che non mi hai ancora detto cosa ci fai da queste parti».

«Ho preso l’autobus sbagliato» rispose lei senza riflettere su quanto diceva.

«Uhm… interessante. E dove saresti dovuta andare? Se mi posso permettere, naturalmente».

Marzia sorrise come un’adolescente: «Al lavoro. Dall’altra parte della città» e subito scoppiò a ridere come le era accaduto poco prima. Il suo fantasma la stava possedendo. Lo sentiva bene. Le braccia, la testa, il torace: tutto il suo corpo le pareva un costume indossato da un bislacco attore invisibile.

«Ma a quest’ora si staranno chiedendo il perché della tua assenza. Hai telefonato per avvisarli?»

«No» esclamò seccamente continuando a seguire con gli occhi il contorno greco di quel viso «Forse è destino, come dicevi tu».

L’uomo corrugò la fronte: «Non dovresti scherzare con il lavoro di questi tempi. Il giornale parla molto chiaramente: questo è ormai un paese in grado di formare solo ottimi emigranti!»

«Ma io non scherzo affatto!» incalzò lei osservando di nuovo la desolazione della grande piazza dove si era fermato l’autobus «E’ stato un errore. Capiranno. Domani dirò di essermi sentita molto male».

Per qualche secondo ebbe di nuovo paura: «Ma di cosa?» pensò «Se dicessi a mio padre che ho perso il lavoro, manderebbe giù un bicchiere un vino e alzerebbe le spalle dicendomi che ne era certo».

No, la paura aveva un’altra natura, ben più nascosta e insidiosa. Nella sua azienda non era un elemento insostituibile, ma molti sguardi si posavano su di lei e tanti colleghi le parlavano con piacere. Talvolta condividevano i dissapori, altre volte le loro vicende personali e, durante ogni chiacchierata, anche la più banale, Marzia si sentiva investita di un diritto straordinario. Sorrideva quando c’era da gioire, faceva le smorfie venendo a conoscenza di un torto subìto e, in molte occasioni, aveva raccolte le confidenze più intime di alcune colleghe che lavoravano accanto a lei. Non le piaceva molto ascoltare la sfilza delle loro vicissitudini sessuali, ma quell’interesse dimostrato nei suoi confronti la trasformava da donna mancata a potenziale amante, consigliera e amica. Tutto ciò la eccitava enormemente, quasi come un bambino che scopre per la prima volta l’ignoto o a cui qualcuno di più grande si rivolge come se fosse un suo pari.

Era dunque quella la causa prima della sua paura. Ma d’altronde, in quello squallido locale, in compagnia di un giovane sconosciuto, lei si sentiva bene, addirittura euforica, e aveva poco da invidiare alle sue giornate nell’azienda tessile. Anzi, se proprio il confronto non poteva essere eluso, l’onda di calore che l’aveva pervasa pochi attimi prima, era stata ben più impetuosa della più intrigante delle confessioni. Sorrise e sentì di essere proprio al margine di una diga in procinto di esondare.

«Io abito proprio qui sopra. Perché non sali un po’ a casa con me?» azzardò il giovane sicuro di una risposta negativa.

«Di sopra?» rispose lei lasciando che il sorriso trovasse sfogo in quell’invito «Perché no? Lasciami pagare il caffè. Tanto oggi non ho proprio nulla da fare».

«Lascia stare. Ci mancherebbe altro!» esclamò l’uomo sorpreso per quella naturalezza. Poi, rivolgendosi al barista, disse: «Mattia, mettilo sul mio conto. Domattina regoliamo tutto».

«D’accordo» rispose il vecchio facendo una smorfia «A domani…»

Il portone era proprio accanto all’ingresso del bar. L’edificio era squallido come il resto delle costruzioni, ma l’appartamento del giovane pareva grazioso, addirittura curato nei dettagli.

«Non ci siamo ancora presentati» disse lei voltandosi verso l’ampia finestra del salone «Io mi chiamo Marzia. E tu?»

«Paolo» rispose lui lasciandosi cadere sul divano.

La ragazza si voltò di scatto, con un sorriso beffardo dipinto in volto: «Sai cos’è il destino? Ci pensavo proprio mentre salivamo le scale».

Poi, senza attendere la risposta, aggiunse: «Te lo mostro io. Sono certa che il tuo romanzo acquisterà un senso completamente diverso».

In una serie di gesti che parevano essere estratti dalle movenze irrigidite di una statua, Marzia chiuse la tenda e iniziò a spogliarsi. Lanciò il cappotto su una sedia, si tolse il maglione, la gonna, le scarpe e, in pochi attimi rimase solo con la biancheria intima. Dopo di che, iniziò a ridere come se fosse ubriaca e puntò Paolo con uno sguardo spiritato: «Intravedi il destino?» esclamò «Lo vedi? Dai, dimmi che lo vedi! Ne sono certa… non mentire!»

«Ho capito» aggiunse facendo finta di essere triste «Hai bisogno degli occhiali» e senza nessun indugio lasciò cadere il reggiseno e gli slip.

«Adesso non puoi negare. E’ così lampante!» urlò continuando a ridere e a dimenarsi come una spogliarellista «Eppure i tuoi occhi sono incollati su di me. Ti ho stregato? Vuoi fare l’amore? Anche qui, sopra questo tappeto. Su! Confessalo!»

Paolo si passò una mano sul viso, ma non disse nulla. Di fronte a lui c’era solo un corpo di donna pronto ad accogliere nel ventre il suo sesso senza alcuna remora, una protesi anatomica vibrante di meccanica passionalità. La ragazza del bar, così elegante nella sua timidezza, pareva essersi dissolta, come un serpente che cambia la pelle e lascia le sue vestigia disanimate tra i fili d’erba.

Gli parve di rivedere la Nascita di Venere di Botticelli, solo che a differenza del dipinto, nel suo soggiorno c’era una donna che non tentava neanche di coprire i suoi seni e il triangolo pubico. Quella stranissima dea dell’amore appariva così sguaiata e manifesta da rendere inutile perfino il compito della ninfa, colei che nel dipinto appare tanto solerte nel dare un abito al frutto celestiale di una conchiglia.

Marzia sembrava davvero la Venere ubriaca e impazzita, una donna che aveva barattato l’ultimo frammento di femminilità per comprare del liquore scadente e precipitare in un vortice di distruzione. Si sentì disgustato come se avesse mandato giù per errore un boccone irrancidito.

«Sei una puttana?» le chiese improvvisamente.

Marzia impietrì e il suo volto mutò d’aspetto. Cercò di parlare, ma anche l’ultimo filo di voce pareva essersi disperso nell’oblio di quell’istante appena trascorso. Di fronte a se, come un spirito evocato da un antico rituale, gli apparve la figura massiccia di suo padre, affondato nel divano e con la patta dei pantaloni aperta. I suoi occhi iniettati di sangue seguivano il cammino tortuoso di ogni venuzza che traspariva sotto la pelle chiara, e il suo dito, pesante come una mannaia, la sfiorava imitando il moto sinuoso di un pitone. Il viso butterato era irriconoscibile: rideva e piangeva nello stesso tempo, ma non la lasciava andare via. La possedeva. Come si possiede un tavolo, una sedia, un vecchio abito dismesso. Era sua, ma quel sangue così rosso gli provocava ribrezzo e quindi, come un sacco maleodorante, la tratteneva a distanza, umiliandola due volte con il medesimo atto.

Donna in preda al panico

«Oggetto di sesso?» gridò il vecchio puntandola con l’indice «Oh no… Non vedi che non riesco nemmeno ad avere un’erezione di fronte a te? Non lo vedi?» e abbassò il dito per indicare il pube.

Marzia rabbrividì. Pensò alle colleghe che le raccontavano le loro fantasie e cerco di riportare in vita l’immagine del giovane che aveva conosciuto: «Paolo, Paolo» ripeté «Dove diavolo ti sei nascosto, Paolo?»

Fallì diverse volte, mentre il suo corpo iniziava ad irrigidirsi come quello di un cadavere.

Con uno sforzo immane, spalancò gli occhi e, di fronte all’espressione muta del giovane, tirando un sospiro di sollievo, disse solo: «Pensavo che l’avessi capito».

Senza alcuno sforzo le tornò in mente il suo tentativo di camuffarsi con i vestiti della madre defunta e le venne da piangere. Poi, soggiogata dalla vergogna, corse nella stanza accanto con la biancheria intima e la gonna appallottolata.

Per la seconda volta in quella giornata, non realizzò come mai avesse pronunciato con tanta leggerezza quelle parole, peraltro false, ed ebbe paura. Ma non sentì più quel senso di smarrimento che l’aveva sfiorata al bar. Adesso la sensazione era quella di un puro e gelido terrore: tutto il suo corpo si stava dissolvendo per scomparire nell’ombra. Ogni secondo che trascorreva, diveniva sempre più popolato da qualcos’altro, ignoto ma sadicamente egemone. Con le mani tremanti si rimise addosso i pochi indumenti e tornò sconvolta nella penombra del soggiorno.

«Non devi prendertela» le sussurrò l’uomo vedendola sconvolta «Non voglio che tu vada via. Beviamo insieme qualcosa. A me farebbe molto piacere».

Marzia non rispose. Non aveva nemmeno udito le sue parole. Con gli occhi umidi cercò la sagoma di suo padre nascosta dietro la tenda o sotto il grande tavolo. Vide solo l’orma profonda del buio.

«Whisky va bene?» chiese Paolo scrutando il contorno incerto di quella figura ormai trasecolata.

Silenzio. Una mosca ronzava attratta dalla luce fredda di una lampada.

«D’accordo. Vada per il whisky!» esclamò fingendo di stare interpretando quel mutismo per tacito assenso.

Andò in cucina a preparare i bicchieri, ma proprio mentre finiva di riempire il secondo, udì il rumore sordo della porta che si chiudeva. Nel soggiorno la tenda era stata spalancata e la mosca continuava ad urtare il vetro appannato nel tentativo di uscire.

Marzia giunse all’ingresso dell’ospedale con la sensazione del sesso ghiacciato dell’uomo ancora dentro di lei, come una lama ormai adagiata tra le carni. Tentare di rimuoverla le causava un dolore lancinante, ma tenerla all’interno del suo corpo equivaleva a continuare a vivificare quell’orrenda sensazione di essere posseduta da un orco invisibile, al cui richiamo lei sarebbe tornata indietro per immolarsi senza alcuna resistenza.

I suoi passi erano incerti e non riusciva a pensare lucidamente: mille immagini si sovrapponevano come mendicanti affamati dietro un bancone di beneficienza; tuttavia, in ogni quadro che la sua mente riusciva a dipingere, non mancava mai l’immagine irraggiungibile della donna che aveva stregato suo padre. La vedeva adesso vicina, poi in lontananza, poi ancora in mezzo ad un marasma di corpi nudi e quindi accanto a lei, con una mano tesa e uno sguardo magnetico.

Ne scrutò le forme: erano a tratti gioiose, ma un attimo dopo il sorriso diveniva un ghigno beffardo e la mano poggiata sulla spalla appariva scarnificata, scheletrica. La donna le parlava, ma dietro di lei, un demone occulto, si divertiva ad imitarne il verso, rendendo vano ogni tentativo di comunicazione. Si fermò accanto ad un albero e chiuse gli occhi, proprio come le aveva insegnato sua nonna. Per qualche istante l’immagine sparì e così anche le voci. L’oscurità aveva chiuso il sipario di quel macabro teatro.

Quando riprese il cammino, impiegò qualche minuto per rendersi conto di che ciò che aveva avuto innanzi. Benché evanescente nel chiasso cittadino, quella figura così contrastata non era altro che la donna colpevole di un torto irrimediabile nei confronti del padre: sua madre, la sua essenza più nascosta, non il suo corpo decaduto e ormai irriconoscibile.

Si fermò di nuovo, proprio di fronte all’insegna del pronto soccorso. Anche visualizzandone con fantastica chiarezza i fianchi, le cosce, i seni, la fronte e i capelli, Marzia non riusciva a distogliere lo sguardo da un punto nascosto, appena visibile nella penombra. Una fuga che catapultava ogni desiderio verso un luogo lontanissimo, dove la carne appariva solo uno scarto privo di senso. In quel luogo inarrivabile, la voce roca di suo padre era ormai ridotta ad un lamento indistinto, come il ronzare affannato di un moscerino che cerca la salvezza andando verso la morte.

Con lo sguardo vitreo e il cuore che le spaccava il petto, Marzia si gettò di peso sul maniglione e, lentamente, fece ingresso all’ospedale.


Depositato per la tutela legale presso Patamu: certificato


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