Giobbe

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Prologo

Giobbe osservava una crepa della parete. Ritirato nella sua piccola casa di montagna, si limitava a stare seduto di fronte ad un muro per scrutarne ogni dettaglio, come un collezionista fa con i suoi francobolli. Quella sottile fenditura aveva catturato la sua attenzione sin dalle prime luci dell’alba e, anche dopo parecchie ore, continuava ancora ad esercitare lo stesso fascino.

Iniziava a pochi centimetri dallo stipite di una porta e si muoveva in linea retta sempre per piccoli tratti, curvando bruscamente, ritornando indietro, allargandosi e restringendosi come un fiumiciattolo, sino a perdersi in un’ampia area biancastra, dove si notavano ancora i buchi lasciati da tre grossi chiodi.

Non si sentiva stanco, nonostante la lunga permanenza nella stessa posizione, ma mentre il sole declinava all’orizzonte abbassando lentamente la linea d’ombra che spezzava la stanza in due parti, egli percepiva uno stato di calma che aumentava spiraleggiando come l’effetto di un anestetico iniettato lentamente. Sia che si trattasse del termine di una giornata o della sua stessa vita, la fine non lo spaventava più, anzi, contrariamente a quanto era stato sempre propenso a credere, adesso riusciva a donargli perfino quel senso di sicurezza che la realtà gli aveva improvvisamente negato.

Quando la mattina si svegliava, attorno a sé non vedeva altro che proiezioni della sua stessa figura. La tenda lisa e ingrigita, la scrivania di legno scadente, il linoleum macchiato sul pavimento: oggetti che erano stati nuovi e che adesso continuavano a rimanere al loro posto solo per un profondo e assurdo senso del pudore. Non appena le mani dell’uomo li avessero gettati via, il loro spirito sarebbe stato sepolto sotto un cumulo di spazzatura e nessuno li avrebbe mai più ricordati. Questo pensava Giobbe mentre si rimetteva in piedi sentendo le sue ossa scricchiolare: perché l’oblio non gli risparmiava quello strazio?

Giobbe: un uomo sofferente in lotta contro chi lo ha destinato a quella sorte

Così come egli aveva fatto con i vecchi abiti dismessi, la natura avrebbe dovuto fare con lui. In fondo si trattava solo di mostrare pietà, di porre fine a ciò che era già passato, ma che un demone perverso desiderava continuare a vedere vivo e animato, quasi come un animale impagliato mosso da stimoli elettrici.

Prima di ritrovarsi solo, sua moglie l’aveva più volte invitato a togliersi la vita. Senza preamboli o giri di parole: gli aveva semplicemente detto: «Ucciditi. Mi sembra la cosa più giusta» e poi era scomparsa, senza attendere la sua reazione.

A lui non mancava di certo il coraggio e sapeva bene che tagliandosi le vene dei polsi longitudinalmente, il sangue sarebbe uscito così velocemente da non dargli il tempo di capire cosa stava per succedere. Ormai era così lucido da comprendere che non sarebbe stato neppure difficile eseguire materialmente quel gesto: le sue braccia erano scheletriche e due grossi canali violacei spuntavano sotto la pelle risalendo sino alla spalla. Un attimo di dolore, mentre la lametta lacerava le carni e poi il silenzio. La notte che si preoccupa di lasciar dormire i suoi figli. La compassione forzata degli uomini e della natura.

Ma tutto ciò, per quanto confortante, andava contro la sua logica e quindi poteva solo essere auspicato, mai portato a termine. La morte, un’amante impareggiabile che ormai Giobbe corteggiava con ogni suo gesto, ma che si guardava bene dal chiamare per nome, prima o poi lo avrebbe raccattato come un cencio zuppo di pioggia. A lui non restava quindi che aspettare.

«Nemmeno oggi» ripeteva ogni mattina dopo aver aperto gli occhi. Poi, rassegnato, sospirava, scuoteva il capo e si alzava dal letto, sentendo il dolore percorrergli la schiena.

L’oggetto del suo desiderio era ormai un essere onirico che lo tormentava portandolo al limine del piacere, ma interrompendo bruscamente l’amplesso un attimo prima di consumarlo. Gli era perfino capitato di sognarla e la sensazione aveva destato in lui ricordi ormai sopiti, ma si era sempre interrotta pochi attimi dopo, dissolvendosi in un miscuglio di immagini e suoni, prima di capitolare definitivamente nel ritorno della coscienza.

Nonostante ciò, faceva di tutto per vederla, provava a scrutare nell’ombra, ma i suoi modi erano fin troppo timidi, impacciati e quando pensava di trovarsi finalmente di fronte a lei, voltava lo sguardo per timore di essere umiliato da un suo rifiuto. Non si trattava più di mancanza di coraggio, ma di un amore che poteva troppo facilmente essere disatteso, come quello che aveva nutrito nei confronti della vita. Un amore che risiedeva in un luogo irraggiungibile, infinitamente lontano, ma i cui fili giungevano sino a lui, cambiando colore e aspetto centimetro dopo centimetro.

La crepa sul muro ne era la conferma: serpeggiava sino quasi a perdersi, ma avvicinando il viso alla parete, si poteva ancora scorgere il suo moto naturale, reso quasi indistinguibile dalle spaccature dell’intonaco, ma sempre pronto a ricomparire al di là di un quadretto o della traccia scura di un filo elettrico. La vita, e forse anche la morte, erano solo illusioni, finti stati del suo essere che, sfruttando la distrazione, l’avevano incatenato e trascinato a forza lungo i viali, nelle piazze, tra i banchi di una chiesa e perfino nel letto di una prostituta. Convinto di essere libero, aveva usato ogni istante del suo tempo per raccogliere i mattoni della prigione dove si stava rinchiudendo. Solo quando riuscì ad aprire gli occhi, desiderando finalmente di morire, Giobbe iniziò a vivere.

Durante la giovinezza era stato un uomo entusiasta, sicuro di sé, ligio al dovere e abituato più ai riconoscimenti che alle critiche. Aveva sempre fatto il suo dovere senza cercare l’eccezionalità e non aveva mai preteso nulla che non gli fosse spontaneamente concesso. Con la stessa disposizione d’animo, aveva accettato anche l’avanzare del declino.

Dopo anni di vittorie, nel giro di poche settimane, aveva perso tutto, passando dal pieno benessere all’indigenza più cupa. Era ormai un uomo miserabile, ridotto a vivere in una stamberga senza acqua corrente, abbandonato da tutti e respinto dalla moglie senza alcuna pietà. Le uniche cose rimaste intatte erano le sue certezze, portate avanti come stendardi militari anche di fronte all’ineluttabile. Giobbe aveva accettato tutto, memore del suo passato e, da principio, aveva perfino rigettato le imprecazioni, inutili a suo dire, nei confronti di una sorte che, in fin dei conti, era stata anche benigna.

«Vigliacco!» gli urlò sua moglie prima di voltargli definitivamente le spalle «Ti amerei di più se prendessi una pistola e andassi a sparare contro chi ti ha ridotto in questo stato! Ti amerei di più perfino se ti facessi uccidere!»

Ma Giobbe non aveva mai posseduto una pistola e non sapeva neppure usarla. Era stato costretto perfino ad accettare l’addio della donna amata, l’unica della sua vita, ma non se l’era mai sentita di ribellarsi contro ciò che egli riteneva al di là del suo potere. Aveva soltanto preso le sue poche cose e si era ritirato in una piccola casetta di montagna, una catapecchia cadente, sporca e umida, inabitata da decenni. Si era disteso su un materasso pieno di buchi e aveva cominciato a pensare.

Il lungometraggio della sua esistenza si dispiegava davanti ai suoi occhi senza soluzione di continuità: i successi lavorativi, i guadagni inattesi, la prima volta che aveva fatto l’amore con sua moglie, l’appartamento in centro, e quindi la casa al mare e una bellissima villa in collina. Senza l’aiuto di nessuno, Giobbe aveva visto crescere il suo prestigio sino al momento del tracollo. Come un figlio di cui ci si prende cura giorno e notte per poi scoprire improvvisamente che sta per morire, egli aveva ingenuamente escluso la possibilità della privazione, rimanendo letteralmente senza parole quando i primi avvenimenti spiacevoli iniziarono ad accadere. Non era stato un pusillanime, come molti furono portati a credere: semplicemente non conosceva i termini che potessero esprimere al mondo il suo disagio.

Da quel tragico momento, gli eventi si erano succeduti in modo vorticoso e qualsiasi tentativo di opporvisi non sarebbe stato molto diverso dalla stasi più remissiva: la furia rabbiosa con cui la malasorte aveva sferrato il suo attacco lo aveva tramortito senza ucciderlo e durante la sua incoscienza aveva scavato nel profondo, come una colonia di vermi all’interno di una carogna. Da principio desiderava soltanto morire. Poi si era insinuato in lui il desiderio di essere egli stesso l’artefice della sua fine. In seguito, capendo quanto assurda fosse quell’intenzione, era tornato nella culla del suo desiderio iniziale e lì si era addormentato.

La moglie iniziò presto a detestarlo, trovandosi anche lei ridotta in miseria, gli amici più intimi scomparvero e perfino i conoscenti decisero di evitarlo per paura di essere considerati come lui. A Giobbe non rimase altro che ritirarsi in montagna, lontano da tutti, in compagnia soltanto dei pensieri, insistenti come mosche, e del suo corpo ormai ridotto ad un mucchio d’ossa consumate.

I tre amici

Quando ormai Giobbe si era convinto di non rivedere più anima viva, tre suoi vecchi amici e colleghi decisero di andare a fargli visita. Partirono di buon’ora e giunsero al luogo che gli era stato indicato poco dopo mezzogiorno. Si trattava di Elifaz, Zofar e Bildad, provenienti da città diverse, ma accomunati dal medesimo obiettivo: riuscire bene nel loro lavoro e incrementare i profitti della società.

Parcheggiarono l’automobile in uno spiazzo, scesero e rimasero a fissare perplessi quella che pareva essere una stalla abbandonata.

«Secondo me abbiamo sbagliato strada» disse Elifaz scuotendo il capo.

Bildad, che aveva guidato durante tutto il tragitto, protestò subito: «Questo è il punto che ci hanno segnalato. Forse c’è un casa dietro a quella baracca, avviciniamoci».

I tre iniziarono a muoversi lentamente, come se fossero terrorizzati dall’idea di poter essere infettati da un batterio nascosto tra quei pezzi di legno marci e cadenti. Quando giunsero a una decina di metri, si accorsero che un vecchio li osservava restando seduto in un angolo.

«Chiediamo a lui» propose Zofar «Magari conosce Giobbe e può indicarci la strada migliore per raggiungerlo».

Elifaz annuì e si avvicinò con un passo più deciso, ma non appena arrivò di fronte all’uomo, si bloccò portandosi le mani ai capelli. Zofar e Bildad corsero verso di lui, pensando che si sentisse male, ma anch’essi, osservando bene i lineamenti del vecchio, non riuscirono a pronunciare alcuna parola. Rimasero a bocca aperta, spaventati e sorpresi al tempo stesso.

«Giobbe!» esclamò Elifaz «Per un attimo ho pensato di essere impazzito! Se non ti conoscessi da trent’anni, non scommetterei un centesimo sulla tua identità!»

In effetti, di fronte a loro non c’era un uomo, ma la caricatura grottesca di un essere portato allo sfinimento, torturato senza sosta e tenuto in vita con una dedizione quasi maniacale. Le braccia e le gambe erano scheletriche, d’un colore che oscillava tra il rosa pallido e il grigio; il viso non era molto più di un velo di seta steso sopra un cranio di marmo e gli occhi, una volta brillanti come cristalli sotto il sole, parevano pozzi profondissimi, anfratti spettrali dove la luce non sarebbe mai più giunta.

«Elifaz!» disse Giobbe cercando di raddrizzare la schiena «E ci siete anche voi! Zofar e Bildad. Che gioia vedervi! Ero convinto che non esistessero più persone pronte a preoccuparsi per me e invece voi siete arrivati sin qui!»

Bildad, che era il più anziano e sospettoso dei tre, fece una smorfia. Nonostante fosse assurdo pensare il contrario, egli non era affatto convinto che quel vecchio fosse realmente l’amico caduto in miseria.

«Era un dovere» mormorò avvicinandosi lentamente, quasi come se fosse di fronte ad un cane randagio pronto a saltargli alla gola «E ne sono ancora più convinto adesso, vedendo come ti sei ridotto».

Zofar, che era rimasto in silenzio, si intromise prima che Giobbe potesse rispondere: «Bildad ha ragione. Siamo al corrente di ciò che la gente continua a dire in giro, ma noi ti conosciamo da troppo tempo per lasciarci bloccare tanto facilmente».

Nel frattempo Elifaz si era seduto sopra un gradino e continuava a scrutare il volto dell’amico. Sembrava ossessivamente interessato a comprendere quali processi chimici erano riusciti a far morire cellula su cellula in così poco tempo. Anche se non lo fece, il suo desiderio maggiore rimase quello di afferrarlo per il bavero e chiedergli che razza di sortilegio si era scatenato contro di lui.

Giobbe parve leggergli nel pensiero e rispose prima che qualsiasi domanda in merito fosse formulata: «In questa casa non ci sono specchi, ma vedo bene ogni parte del mio corpo». Si interruppe con il capo leggermente chino in avanti. I suoi occhi si inumidirono, ma nessuno se ne accorse.

«Sono un mostro. E’ questo che pensate, lo so. Ma che posso farci ormai? Spero solo di morire al più presto».

«Questo è indegno per un uomo del tuo rango» proruppe Bildad «Anche se hai sbagliato, devi lo stesso conservare la tua dignità».

Elifaz e Zofar fecero un cenno con la testa: erano d’accordo con lui.

Giobbe, invece, volse bruscamente lo sguardo con un movimento simile ad uno spasmo improvviso: «Io non voglio morire perché ho sbagliato» urlò con tutto il fiato che aveva in gola «Io non ho sbagliato affatto! Dunque pensate questo di me?»

I tre amici rimasero in silenzio, mentre Giobbe cercava di cambiare posizione con una smorfia di dolore dipinta in volto.

«Non siamo qui per accusarti» rispose timidamente Zofar.

«Non m’importa nulla se non siete qui accusarmi» esclamò Giobbe puntando il dito filiforme in direzione del suo viso «Io voglio sapere se pensate cha sia colpevole!»

Zofar fissò Bildad, il quale abbassò subito gli occhi. L’unico a restare impassibile fu Elifaz. Sapeva che quella visita non si sarebbe limitata ad uno scambio di convenevoli e si era preparato anche alle estreme conseguenze.

«Non dovremmo?» gli chiese modulando la voce affinché il suo tono apparisse contemporaneamente deciso ma non troppo arrogante.

 «Chi può impedirvelo?» rispose Giobbe dopo aver socchiuso gli occhi «E d’altro canto, pensandoci bene, non m’interessa neppure. Ma io…»

«Ma tu sei convinto di non essere colpevole» intervenne Bildad interrompendolo «Certo! Era da immaginarselo. L’orgoglio prima di tutto!»

Zofar si strofinò la fronte come se volesse nascondere agli altri il suo sguardo: «Ah, se tu fossi più umile!» mormorò «Forse il Presidente potrebbe perfino cambiare idea sul tuo conto».

«Il presidente!» sbottò Giobbe come un pupazzo a molla «L’artefice di questo sfacelo. Un uomo che è andato sul palco solo per prendersi gli applausi e che ha lasciato carta bianca ai suoi luogotenenti, fingendo di non vedere le angherie che imponevano agli impiegati! E’ di fronte a lui che dovrei rinunciare alla mia dignità? State dicendo questo?»

I tre amici si guardarono ripetutamente. Erano sconvolti per quella brutalità e, nonostante fossero convinti che Giobbe avesse da tempo perso il senno, non riuscirono subito a trovare le parole giuste per rispondergli.

Fu Elifaz a rompere gli indugi: era cosciente della sua verità e non c’era alcuna ragione per lasciarsi intimorire delle farneticazioni di un folle.

«Parli del Presidente come se si trattasse dell’ultimo usciere!» esclamò «Se prima potevamo nutrire compassione nei tuoi confronti, adesso dovremmo essere felici che la società sia stata epurata da un uomo come te!»

Giobbe non si scompose. Le sue reazioni sfuggivano a qualsiasi controllo razionale e oscillavano senza alcuna predicibilità dalla calma più artificiale ad una furia delirante.

«Il presidente ama solo nascondersi nell’ombra» rispose come se stesse ripetendo a memoria una tabellina.

«Ma ti rendi conto di chi stai parlando?» proruppe Zofar.

Bildad, voltando le spalle al gruppo, sussurrò: «Come potrebbe rendersene conto? E’ matto!»

Ma Zofar parve non farci e caso e continuò puntando il dito verso Giobbe: «Il Presidente ha saputo costruire un impero e sì, è vero, talvolta le sue scelte strategiche sono state azzardate, ma chi potrebbe metterle in discussione dopo aver visto i risultati? Solo tu hai il coraggio di parlare in questo modo!»

Giobbe sorrise sarcasticamente: «Io non ho mai dubitato dell’intelligenza del Presidente e se pensate questo, siete in errore. Sono stato onorato di lavorare per anni in una società così brillante, ma proprio perché egli mi ha scelto, non posso che angustiarmi! Se fosse stato uno sciocco, avrei ammesso che poteva essersi sbagliato nel valutarmi positivamente, ma visto che stiamo parlando del Presidente, questa possibilità è fuori discussione. Dunque non posso che pensare che egli mi abbia voluto colpire senza alcun motivo preciso e perciò vorrei averlo qui, di fronte a me. Per conoscere almeno le ragioni della sua decisione!»

«Già» continuò Zofar «Lui che viene da te per spiegarti le ragioni di un gesto inattaccabile. Stai solo farneticando!»

«Faresti meglio ad andare dal Presidente, o meglio, da un suo emissario, con la coda tra le gambe» asserì Bildad avvicinandosi al gruppetto «Se lasciassi da parte il tuo orgoglio, forse lui potrebbe prendere in considerazione anche una riassunzione. Certo, dovresti accontentarti di mansioni molto umili, ma almeno potresti sperare in una vecchiaia dignitosa».

Elifaz scattò in piedi esclamando: «Questa è davvero un’ottima idea! Ti aiuteremo noi a scrivere una lettera di scuse». Subito dopo, senza chiedere il permesso, entrò nella casupola alla ricerca di un foglio e una penna.

Giobbe si sentiva stanco, gli dolevano le gambe e iniziava a non sopportare più quella visita, ma la sua educazione gli impediva di licenziare gli amici troppo bruscamente. Si limitò a rispondere soltanto: «Vi ringrazio per il vostro interesse, ma non detterò alcuna lettera, né tantomeno ne firmerò una scritta di vostro pugno».

Elifaz, tornato nella veranda, allargò le braccia: «Ma in questa casa non c’è proprio nulla! Ti sei ridotto a vivere come un pezzente!»

«In macchina c’è la mia valigetta» suggerì Zofar «Lì troverai carta e penna».

Elifaz annuì e si diresse a passo svelto in direzione della vettura. Bildad, dall’alto della sua esperienza, si rivolse invece a Giobbe: «Nel frattempo, tu faresti meglio a trovare le parole giuste. Eri il migliore di tutti a parlare in pubblico. Cerca almeno di mettere a frutto questo talento».

Mentre Elifaz tornava con un blocco di carta e due penne, Giobbe tentò di rispondere: «Sono sfinito» riuscì a dire prima che Zofar lo interrompesse.

«Io inizierei con un atto di scuse formale» disse «Servirebbe a mettere il Presidente nella giusta disposizione d’animo».

«Sì, sì» confermò Bildad «Senza termini strani o espressioni complicate: devi soltanto dichiarare la tua colpa e rimetterti alla sua benevolenza».

«Allora Zofar» esclamò Elifaz con la penna in mano e il blocco sulle ginocchia «Io ho scritto: ‘Ecc.mo Presidente, potrei terminare questa lettera dicendo che sono colpevole di tutto, ma la prego lo stesso di leggere quanto segue affinché le mie scuse non restino degli inutili vaneggiamenti…’ Che ve ne pare?»

«L’ultima parte è tronfia» decretò Bildad «Degna di Giobbe, ovviamente. Ma visto che ci siamo anche noi, non possiamo permetterlo. Io direi: ‘Sono colpevole e non merito che lei legga quanto segue, ma se nella sua benevolenza vorrà farlo, sono certo che troverà soltanto parole che accentueranno la mia condizione…’ E così in avanti».

«Mi sembra più adeguato» disse Zofar «Che te ne pare, Elifaz?»

L’uomo parve inizialmente contrariato, ma si lasciò convincere. Barrò le frasi che aveva scritto e appuntò le nuove proposte.

«A questo punto» aggiunse dopo aver terminato di scrivere «Credo che anche voi conveniate sul fatto che è indispensabile non far perdere tempo al Presidente. Le colpe vanno elencate in modo ordinato, senza fronzoli. Io userei una lista puntata, sottolineando gli elementi che meritano più attenzione».

«Perfetto» rispose Bildad.

«Perfetto» fece eco Zofar.

«E tu?» chiese Elifaz a Giobbe «Te ne stai in silenzio? Vuoi delegare a noi tutto il lavoro? Come sempre, d’altronde…»

Per qualche istante si udì solo il rumore del vento tra gli alberi e il verso lontano di un rapace in cerca di cibo.

«Voi siete delle sanguisughe» mormorò a denti stretti «Se fossi morto, cerchereste di rianimarmi solo per costringermi a firmare quella lettera!»

«Orrende sanguisughe!» ripetè battendo il pugno sul bracciolo della sedia. Quindi provò ad alzarsi, ma non ci riuscì. I suoi arti si erano irrigiditi come gli ingranaggi arrugginiti di un vecchio orologio abbandonato in fondo al mare.

«Non abbiamo speranze» disse improvvisamente Bildad «Il suo cervello è andato in fumo. Delira come un incosciente».

«Sta zitto!» lo bloccò Giobbe strabuzzando gli occhi più che poteva «So bene quali favori ti ha concesso la segretaria del direttore finanziario affinché tu le lasciassi leggere certi documenti. Anche quello faceva parte dei progetti strategici del Presidente? E tu, Zofar, quanti bilanci hai truccato per ridurre le tasse e intascare la percentuale? Per non parlare di Elifaz, capace di corrompere un amico d’infanzia pur di ottenere informazioni riservate sulle gare d’appalto!»

I tre, senza scomporsi, tornarono a fissare le punte delle scarpe. Avevano imparato ad essere refrattari alle accuse e a respingere le provocazioni con il silenzio. La società era riuscita nello scopo di trasformarli da uomini in impiegati e quindi, dopo anni di fatiche, in esseri dediti alla più completa indifferenza. Il numero, freddo e asettico, doveva essere il loro Dio e costui, come Giobbe sapeva bene, non poteva deperire né cadere nello sconforto. Perché dunque darsi tanta pena per un uomo? E poi, quel derelitto coperto di polvere che stava innanzi a loro, poteva ancora chiamarsi uomo?

«Vorreste convincermi che ho sbagliato?» gli chiese facendo scorrere il dito lungo un arco che andava da destra a sinistra «Ma se anche così fosse, vi interessano di più il mio errore e la mia disgrazia o quanto essi siano utili per dimostrare la vostra finta perfezione?»

«Su, rispondetemi! Non abbiate timore» li esortò mentre il gruppetto si disponeva lungo i vertici di un piccolo triangolo isoscele.

«Il delirio non è una scusante» disse Elifaz sottovoce «Quest’uomo confonde volontariamente il giorno con la notte. Abbiamo solo perso tempo».

Zofar annuì malinconicamente e aggiunse: «Dovevamo dare ascolto a Sara». Quindi, come un bambino redarguito, riabbassò gli occhi e iniziò a tracciare una forma sul terreno con la punta della scarpa.

«Sara?» tuonò Giobbe sporgendosi in avanti «Perché? Voi avete…»

«Sì, certo! Ti meravigli?» esclamò Bildad «Chi pensi ci abbia detto dove ti eri nascosto? Tua moglie! E’ da lei che siamo andati!»

«Ma prima di arrendersi alle nostre insistenze» continuò Elifaz «Ha provato in tutti i modi a dissuaderci. Povera donna… Ridotta a vivere come una pezzente! Non ci pensi a lei? Ti sei dimenticato del giuramento che pronunciasti il giorno del matrimonio? L’orgoglio ti condurrà alla tomba, Giobbe, e lì sarai solo in compagnia dei vermi. Nessun amico verrà più a farti visita».

Dopo aver terminato, strappò il foglio e lo gettò ai suoi piedi. Giobbe sembrava trasecolato, smarrito in un labirinto di ricordi, mentre con la mano sinistra, involontariamente, tastava l’aria, come se tra i refoli di vento potesse nascondersi ciò aveva perduto per sempre.

«Ecco la tua ultima possibilità!» urlò Elifaz puntando il dito verso la lettera appallottolata «L’ultima mossa che il tuo maledetto orgoglio è riuscito a suggerirti!»

Bildad e Zofar non aggiunsero nulla. Indossarono i soprabiti e si avviarono in direzione dell’automobile. Dopo una manciata di secondi, anche Elifaz fece altrettanto, lasciando Giobbe così come l’aveva trovato: solo, sprofondato in una vecchia sedia a sdraio, intento ad osservare la strana forma di una pianta rampicante.

Il Presidente

Qualche giorno dopo la visita dei tre amici, un’altra autovettura si fermò nello spiazzo di fronte alla casupola. Era molto più grossa, d’un nero scintillante e aveva i vetri completamente oscurati. Giobbe la osservò senza muoversi, seduto nella veranda come una sfinge accanto al portale di un tempio.

Dopo qualche minuto, un uomo in livrea grigia scese dall’auto, si mise il berretto e s’avvicinò a lui guardandosi ripetutamente intorno. Salì uno ad uno i tre gradini di legno consumato e si fermò facendo una smorfia di disgusto. Non disse nulla. Tirò fuori dalla tasca una fotografia e la mise accanto al volto di Giobbe, muovendo ritmicamente gli occhi a destra e a sinistra. Terminata questa operazione, ripose il foglio nella giacca e tornò alla macchina.

Passarono altri minuti senza che neppure una foglia si agitasse, quindi l’autista scese nuovamente, si rimise il berretto e aprì la portiera posteriore. Un uomo in completo bianco comparve accanto alla vettura e anch’egli, per prima cosa, si guardò intorno, incuriosito da ogni dettaglio quasi come se fosse la prima volta che visitava questo pianeta.

Con un’andatura decisa, si avvicinò a Giobbe, fermandosi proprio davanti alla balaustra che separava la veranda dallo spiazzo, ma, a differenza dell’autista, rimase impassibile.

«Non ho mai dato udienza in un posto più squallido» disse togliendosi invisibili granelli di polvere dalla manica della giacca «Eppure eccomi qua».

Il Presidente aveva dunque esaudito la richiesta di Giobbe. Forse informato da Elifaz, Zofar o Bildad, si era lasciato tentare dal dubbio e infine aveva ceduto, facendosi accompagnare in quel posto isolato, per ammirare quanto crudele potesse essere il destino di un suo dipendente modello.

Per parecchi istanti, i due uomini rimasero a fissarsi, come i due piatti della stessa bilancia: da una parte l’orrore e l’angoscia, dall’altra l’opulenza e la serenità di chi ormai prega solo se stesso.

«Ho sbagliato?» chiese Giobbe con un tono flebile, rassegnato.

«Ti interessa davvero saperlo?»

«Vorrei morire consapevole delle mie azioni» gli rispose di getto, quasi come se l’oggetto della domanda riguardasse il suo ultimo desiderio.

Il presidente, a cui Giobbe desidera assolutamente parlare

Il Presidente fece un leggero cenno col capo, socchiudendo contemporaneamente gli occhi: «La morte non è un problema. Elifaz mi ha riferito che non ti interessa tornare alla tua vecchia vita e quindi ho già disposto che sia concesso un cospicuo indennizzo a tua moglie. Ovviamente le sarà corrisposto solo dopo il funerale. A meno che non tu ci abbia ripensato…»

Il capo di Giobbe si mosse impercettibilmente, come uno stelo mosso dalla brezza.

«Tornare indietro per rischiare di rivivere tutto ciò?» chiese sarcasticamente «Preferisco attendere la fine qui, in questa baracca piena di insetti».

«Rischiare il dolore è il prezzo da pagare per lavorare nella nostra società» disse il Presidente «La maggior parte dei tuoi colleghi non ci trovano alcunché di strano».

«Ma io non ho più nulla» rispose Giobbe aprendo leggermente la camicia e mostrando il petto scheletrico «Per me qualsiasi prezzo è sempre troppo alto. L’unica cosa che ormai m’importa è sapere se ho sbagliato».

L’uomo gli si avvicinò oscurandogli completamente la visuale come una nube carica di pioggia: «L’essenziale non è se tu hai sbagliato» mormorò emettendo un soffio simile allo sfiato di una caldaia «Ma che io resto sempre il Presidente e nessuno potrà mai accusarmi o prendere le mie difese. Dunque, pensaci, ha senso prendersi tanta pena?»

Giobbe non fece alcuno sforzo. La sua mente vagava in un cielo senza stelle, senza orizzonti dove annegare. Si limitò a rispondere: «Capisco» e abbassò lo sguardo ormai privo di espressione verso il pavimento consunto.

«Adesso devo andare» disse il Presidente «Il mio autista tornerà di tanto in tanto per verificare le tue condizioni. Non parlerà né si premurerà di chiederti se hai bisogno di qualcosa. Il suo compito sarà solo quello di informarmi quando quel momento giungerà».

Subito dopo, senza attendere alcuna reazione, tornò alla macchina e in pochi attimi scomparve. Dietro di sé lasciò soltanto un alone di polvere e la traccia sbiadita dei pneumatici sul selciato.

Giobbe parve non farci caso. Lentamente si alzò e tornò dentro casa. C’era una crepa sulla parete della camera da letto e non era ancora riuscito a seguirla tutta, dal principio, nell’angolo superiore di una trave, sino alla fine, accanto al bordo annerito di una vecchia presa elettrica.

Si sedette sul materasso e chiuse gli occhi. La fenditura cominciò a muoversi, centimetro dopo centimetro, serpeggiando, facendo piccoli slanci in avanti e tornando indietro, assottigliandosi ed espandendosi come l’ansa di un fiumiciattolo. L’unico a restare immobile era lui, sprofondato in un materasso pieno di buchi, con i vestiti logori e la mani ossute, strette come catenacci.

«Ho sbagliato?» sussurrò alla crepa.

Non attese alcuna risposta. Si lasciò scivolare all’indietro e s’addormentò.


Depositato per la tutela legale presso Patamu: certificato


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