Un viaggio in treno

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photo of train stationEro stato invitato ad un prestigioso convegno psichiatrico a Budapest. Mentre programmavo il viaggio, dopo una giornata di insulsa routine, mi venne in mente di non tornare subito dopo i tre giorni dei lavori, ma di prendere un treno di lusso che mi avrebbe portato a Parigi e da lì, dopo un fine settimana di relax, sarei partito per l’Italia.

I giorni di conferenze passarono molto lentamente ed era più il tempo in cui mi sentivo annoiato che quello in cui intervenivo nelle discussioni e trovavo utile il confronto. I colleghi erano persone molto spesso brillanti, ma la loro faciloneria e il modo con cui si sentivano parte di quel consesso mi provocavano più sdegno che ammirazione. Feci il mio intervento più lungo durante un lavoro di gruppo. Dopo aver parlato per circa mezz’ora, mi sentivo eccitato e leggevo l’approvazione negli occhi degli altri. Di nuovo al mio posto, con davanti un bloc-notes pieno di scarabocchi e una bottiglietta d’acqua, tuttavia, l’effetto svanì e tornai nuovamente ad annoiarmi.

La mattina della partenza mi svegliai presto. Feci una lunghissima doccia bollente e scesi per la colazione. Il treno partiva nel primo pomeriggio, così ebbi il tempo di fare due passi per le strade sempre più sfarzose di quel pot-pourri aristocratico-comunista.

Passai accanto ad un vecchio impianto termale, un edificio imponente ma elegante in ogni dettaglio. La facciata, i colori delle decorazioni, le scritte: tutto pareva voler mostrare uno splendore forse ormai estinto anche se conservato in modo mirabile. L’androne era immenso, pavimentato di marmo e con grandiosi lampadari di cristallo. I pazienti, per la maggior parte anziani, si muovevano lentamente, più come se volessero non sciupare quel posto che a causa dei loro problemi di salute. Una donna, forse addetta al ricevimento dei clienti, si fece avanti verso di me, mi salutò sorridendo e mi chiese qualcosa in ungherese. Feci un cenno con la testa e risposi in inglese che non capivo. Lei non tentò oltre. Sorrise di nuovo e andò via.

Pranzai in un ristorante vicino allo stabilimento termale. Non ebbi difficoltà ad ordinare del Gulasch (che amavo particolarmente), mezzo litro di vino e una fetta di torta Dobos.

Uscii dal locale appesantito. Accesi un sigaro e, per cercare di smaltire velocemente quel pasto, decisi di tornare a piedi in albergo.

Presi il bagaglio che avevo lasciato nel guardaroba, saldai il conto, feci chiamare un taxi e mi avviai in stazione. Trovai il treno senza neanche bisogno di consultare il tabellone: era così elegante già all’esterno da non lasciar sorgere alcun sospetto. Mi avvicinai alla mia carrozza e un fattorino in livrea grigia mi chiese (prima in ungherese e poi in inglese): “Posso aiutarla, signore?

Gli mostrai il biglietto ed egli, annuendo senza neanche rispondermi, prese il mio bagaglio e mi sorrise, invitandomi implicitamente a seguirlo.

Questa è la sua cabina, prego!” esclamò “Per qualsiasi cosa, prima della partenza del treno, può rivolgersi a me. Comunque tra non molto passerà il conduttore. Le auguro una piacevole permanenza!

Lo ringraziai e gli diedi tutti gli spiccioli che mi erano rimasti. Il ragazzo, ancora una volta, sorrise e andò via in silenzio.

La cabina era decisamente più lussuosa della mia camera d’hotel. C’era un divano di pelle comodissimo, un tavolino con vari cassetti, il letto sempre aperto e uno spazio destinato al bagno privato.

Mi tolsi il giaccone, lo riposi nella cappelliera, accesi un sigaro e mi sedetti a fissare il subbuglio della stazione in attesa del conduttore.

L’impiegato arrivò dopo una ventina di minuti. Bussò nonostante la porta aperta e si presentò dicendomi il suo nome, che però dimenticai subito dopo averlo udito. Gli mostrai i documenti di viaggio ed egli annuì.

Lei starà con noi per due giorni” disse “Sino a Parigi. Spero che possa trovarsi sempre a suo agio

Certamente” risposi io.

Quando desidera cenare, il ristorante è due carrozze di distanza da questa” aggiunse “Se lo desidera, posso prenotarle un tavolo sin da adesso, altrimenti le basta venire in loco e il maître la consiglierà

Risposi che preferivo rimanere libero per il momento e che avrei chiesto un tavolo quella stessa sera. Il conduttore fece un cenno col capo e mi augurò buon viaggio. Chiusi la porta e tornai al mio sigaro, proprio mentre il treno iniziava lentamente a lasciare la stazione di Budapest.

Pur non essendomi affatto svegliato presto, dopo pochi chilometri iniziai a provare un certo torpore e mi distesi sulla cuccetta, comoda e spaziosa quasi come un vero letto.

Fuori faceva freddo. Dalla mia posizione orizzontale notavo ogni tanto qualche goccia che screziava il vetro del finestrino. Tutto lasciava presagire che fuori la temperatura fosse molto bassa e io, in quella strana posizione, la osservavo, osservavo il freddo. Non quello vero: il gelo si vive, si sente come un tutt’uno con chi pensa di starne facendo solo la conoscenza. Io guardavo una rappresentazione teatrale del freddo. Dal caldo del mio scompartimento, dalla sicurezza della mia posizione, godevo del pudore del freddo nel palesarsi in un modo così innocuo, inoffensivo.

Chiusi gli occhi e ascoltai il suono delle ruote metalliche sui binari. Quel ritmo cadenzato non mi affascinava: dopo pochi istanti era già noto per l’eternità. Ben presto capii di essere nel pieno della noia e mi lasciai andare al sonno.

Mi risvegliai quando ormai era quasi ora di cena. Avevo i vestiti stropicciati e il viso ancora segnato da quel sonno così improvviso e profondo. Mi lavai, cambiai la camicia e raggiunsi la carrozza ristorante.

Mi venne subito incontro il maître chiedendomi: “Desidera un tavolo, signore?

Sì, grazie” risposi io.

L’uomo si guardò intorno: tutti i tavoli erano al momento occupati, perlopiù da persone sole che cenavano in silenzio.

Mi rincresce, ma penso che dovrà aspettare qualche minuto. Due tavoli dovrebbero liberarsi in poco tempo. Comunque, se avrà occasione di tornare, le consiglio vivamente di prenotare in anticipo”.

Gli risposi che il conduttore si era offerto di registrare la mia prenotazione ma io, per incertezza, avevo preferito aspettare. “Non ho molta fame” conclusi “Resterò nel corridoio finché un posto sarà disponibile”.

Mentre parlavo con il maître, notai che una donna sola, seduta nella seconda fila sulla mia destra, aveva ascoltato l’intera conversazione. Non appena volsi di nuovo lo sguardo verso di lei, mi sorrise con discreta sobrietà e mi fece un cenno con la mano per invitarmi a raggiungerla.

Perché aspettare in piedi?” mi chiese in quell’inglese amorfo di chi non è di madrelingua “Se le fa piacere, può cenare con me. Io ho iniziato da poco”.

E’ molto gentile da parte sua!” risposi “Accetto molto volentieri il suo invito… Anche perché, detto fra noi, ho mentito dicendo che non avevo molta fame!

Lei fece un risolino compassato e si presentò: “Valentina Volkova, russa, in giro per l’Europa per lavoro. E lei?

Le dissi il mio nome e che ero italiano, aggiunsi che avevo scelto di fare quel tragitto in treno per evitare un noiosissimo viaggio in aereo che mi avrebbe subito reimmesso nella mia vita di sempre.

Io ho una terribile paura di volare” disse la donna “E viaggio sempre in treno. Per fortuna la mia azienda non bada molto ai costi e così mi posso permettere le cabine singole di prima classe”.

Nel frattempo, il maître, vedendomi seduto, si era avvicinato con il taccuino per le comande. Gli dissi che avrei cenato con la signora e ordinai un sogliola e una fetta di torta Sacher. Lui fece un cenno di assenso inespressivo e portò la richiesta in cucina.

Cos’è che ti spaventa dell’aereo?” le chiesi riempiendo i bicchieri di vino.

Lei esitò. “Forse il non poter sfuggire. L’essere costretta sino all’ultimo…” rispose, mandando giù un boccone come se volesse digerire quanto aveva appena esternato.

Anche in questo treno sei costretta…” dissi io aspettando una sua obiezione.

Lei mi guardò senza lasciar trapelare emozioni: “Sì certo, anche in questo treno…” fece una pausa e poi aggiunse “Ma non è la stessa cosa…

Già…” risposi ripensando alla sensazione che avevo provato stando sdraiato ad osservare la pantomima del freddo al di là del finestrino.

E tu di cosa hai paura?” chiese Valentina d’improvviso.

Ci pensai qualche secondo. Avrei potuto rispondere la più banale ovvietà, ma ciò avrebbe reso ridicolo anche l’avverbio “maggiormente” che presupponeva senza torto che un normale essere umano è frequentato dalle paure come un avanzo di torta da mosche e formiche.

Le dissi che il mio incubo peggiore non era di trovarmi in un aereo ma piuttosto di pensare di poter stare male in un luogo protetto. Lei mi guardò come se non avesse compreso: evidentemente non ero riuscito ad esprimere in inglese qualcosa che per me era più simile ad un quadro che ad un discorso. Decisi di riportarle le mie impressioni: “Certe volte penso di trovare la felicità in una casa di montagna, soprattutto mentre fuori è freddo e magari un camino arde. Poi bevo una birra, due, tre… e alla fine sento la nausea sopraggiungere e mi spavento perché l’armonia si è incrinata…”.

Lo credo bene!” esclamò lei.

Purtroppo ero certo che anche quella descrizione era stata vana e forse era servita solo a distorcere maggiormente l’immagine che la donna si stava facendo di me. Non me ne curai.

Io temo di trovare il posto dove sto bene” continuai “Perché so che prima o poi spunta fuori un mostro nascosto in una vecchia cassapanca… E sono in trappola!”.

Valentina fece un cenno con la testa per indicare che ero stato chiaro. Anche se avevo parecchi dubbi in proposito, preferii evitare altri paragoni e spostai la discussione su argomenti più banali.

Terminammo la cena e ci congedammo. Mi alzai prima di lei, rischiando pure di apparire maleducato, ma le dissi di dover comunicare urgentemente alcuni informazioni sul congresso ad un collega. Lei non obiettò e rimase a tavola, sola, così come lo era stata prima del mio arrivo.

In cabina mi spogliai e gettai i vestiti sul divanetto. Tirai giù lo scuro del finestrino e mi stesi sulla cuccetta. Rimasi a riflettere su quello che avevo detto per una decina di minuti, poi iniziai a sentire il peso del disinteresse invadere ogni mio proposito. Pensai di tentare di addormentarmi ma non mi sentivo stanco e temevo di rimanere per parecchio tempo a rigirarmi insonne in quello spazio angusto. Mi alzai, aprii il finestrino e fumai un sigaro.

Il freddo entrò vorticando nella cabina come un ospite inopportuno. Dopo ogni boccata, folate gelide di vento mi tagliavano in due il viso, fino a rendere l’atto del fumare così odioso, da costringermi a gettare via il mozzicone e richiudere tutto.

Non avevo documenti del congresso e, se anche le avessi avuti, non avrei certamente pensato di leggerli. L’unico intervento che mi aveva colpito riguardava una nuova interpretazione della schizofrenia ma, sfortunatamente, il professor Reich, che ci aveva intrattenuto per un paio d’ore, non aveva portato con sé tutte le relazioni e mi aveva promesso di mandarmele in seguito. Optai quindi per l’unica scelta disponibile: spensi la luce e mi stesi di nuovo sulla cuccetta.

Dopo una decina di minuti di totale silenzio passati in dormiveglia, udii bussare alla porta. All’inizio mi sembrò il suono dei tacchi nel corridoio, ma dopo pochi istanti sentii una voce accompagnare quel ritmo. Riaccesi la luce, mi rimisi in piedi e aprii la porta stropicciandomi gli occhi. Era Valentina.

Ho sentito il numero della tua cabina mentre lo comunicavi al maître” disse senza alcun imbarazzo.

Le sorrisi istintivamente e, mentre lo facevo, la osservai in modo completamente diverso.

A tavola mi era sembrata una donna normale, come tante; una di quelle che vanno bene come commensali, forse più loquace del solito, ma solo e soltanto un passatempo per non rendere il pranzo un mero pasto. In quel momento, invece, di fronte a me (seminudo), con il suo sorrisetto mal celato e i suoi capelli biondi che svolazzavano come spighe, sentii crescere in me un nuovo desiderio.

Entra pure…” le dissi “Io avevo da poco finito con quelle carte…

Non si lasciò pregare. Si accomodò sul divanetto facendosi posto tra i miei vestiti gettati alla bell’e meglio e non appena ebbi richiuso la porta della cabina, mi disse con fin troppa disinvoltura: “Non ti imbarazzo, vero?

Perché dovresti?” risposi io con altrettanta (artificiale) spavalderia.

Lei fece una smorfia come se non si sentisse del tutto soddisfatta della risposta.

Sei sposato?

No” esclamai “Ma ti ho già detto che non mi sento affatto in imbarazzo!

Bene” rispose Valentina, togliendosi la giacca del tailleur e avvicinandosi a me.

Pochi minuti parvero dissolversi come il polline che si stacca dalla corolla di un fiore per donarsi al vento. Mentre la osservavo in silenzio, lei si spogliò completamente, spense le luci e salì sopra di me. Senza alcun progetto che lasciasse intravedere i fini più reconditi, iniziammo a fare l’amore.

Sentivo la vita pulsarle all’interno, molto più del battito accelerato del cuore. Ogni volta che si fermava o si avvicinava a me, sussurrava qualcosa in russo. Le dissi di continuare: quei gemiti mi aprivano una porta verso un ignoto diabolicamente attraente.

Raggiungemmo insieme l’orgasmo e lei ricadde su di me esausta, ansimando a pochi centimetri dalla mia bocca. Il suo fiato caldo aveva il sapore di un dolce e provai come la sensazione di qualcuno che volesse nutrirmi a forza, benché teneramente, come una madre con i suoi neonati.

E’ stato bello!” disse.

Sì…” risposi io sottovoce.

Restammo quasi immobili per qualche minuto, poi lei si alzò, riaccese la luce mostrando il suo minuscolo triangolo pubico, si rivestì e mi disse soltanto che si sarebbe lavata nella sua cabina. Io annuii senza aggiungere nulla. Andò via insieme al sibilo del treno e io ricaddi nella cuccetta sprofondando subito nel sonno.

L’indomani mi svegliai presto. Dormire in quel letto si era invero rivelato molto meno poetico dell’idea originaria. Mi rigiravo continuamente in quello spazio ristretto e ogni volto finivo per buttare giù la coperta ricamata con le iniziali della compagnia.

L’eccitazione provata la sera precedente non mi aveva abbandonato neanche un istante: sentivo una spinta al basso ventre, come un vulcano che volesse continuare ininterrottamente ad eruttare. Valentina era riuscita a creare e consumare l’esteriorità di un desiderio: aveva forzato quel mio frammento di esistenza, proprio come una folata di vento gelido la cornice del finestrino e, una volta dentro, aveva lasciato che il mio corpo si abituasse a quel senso così strano.

Guardai fuori. I paesaggi si susseguivano senza sosta, senza ritegno per la loro insulsa natura. Adesso non mi sentivo più al caldo, al sicuro, come uno scolaro che osservava uno squalo dentro la vasca di un acquario. Mi sentivo immerso in quel luogo recondito che tanto mi affascinava nella sua incolmabile lontananza. Ero io stesso quel freddo, e il corpo di Valentina la vecchia casa col camino di pietra sempre acceso, ove sentivo me stesso nel continuo rapporto con gli elementi.

Andai a fare colazione.

La sala era piena per metà e lei non c’era. Ordinai una brioche un caffè lungo. Attesi. Più volte il cameriere mi chiese se desiderassi altro e ogni volta rispondevo di no, capendo che avrei dovuto ben presto lasciare il tavolino per i successivi clienti.

Non conoscevo il numero della cabina della donna. Lei aveva udito il mio, ma io, alzandomi prima, mi ero precluso quella possibilità. Mi sentii in inferiorità e provai quasi un piacere masochistico nel doverla attendere in un limbo indefinito.

Tornai nello scompartimento, ma decisi di lasciare la porta aperta. Presi delle carte e iniziai a far finta di leggerle. Ogni volta che udivo dei passi, alzavo lo sguardo e rimanevo sistematicamente deluso.

Forse non fa colazione…” pensai consolandomi “Magari preferisce riposarsi e dormire sino a tardi. O sta già lavorando…

Tornai a guardare fuori. Quel viaggio era promosso sui cataloghi turistici con altisonanti descrizioni della bellezza dei paesaggi che permetteva di osservare.

Mi fermai a seguire le sagome di montagne, prati, alberi, casupole, fiumiciattoli e sentieri per più di un’ora. Poi sentii che la monotonia era ben più forte di quella millenaria ma vacua bellezza. La pubblicità non era un batterio che mi avrebbe mai potuto infettare.

man and woman kissing under the sunChiusi la porta, mi accesi un sigaro e rimasi a fissare il soffitto della cabina. Sentivo parlare attorno a me: le coppie o i piccoli gruppi riuscivano a godere delle loro stesse chiacchiere. Io invece osservavo le volute del fumo contornate dal mio silenzio.

Dopo qualche decina di minuti fermo in quella posizione, udii il conduttore bussare alla porta. Mi chiese con affettata educazione se avessi bisogno di qualcosa.

Una bottiglia d’acqua frizzante” risposi io.

L’uomo fece un formalissimo cenno di assenso col capo e scomparve. Al suo ritorno, dopo aver firmato la ricevuta, mi decisi: “Conosce per caso il numero della cabina della signora con cui ho cenato ieri sera?

Mi fissò perplesso: “Non ricordo con chi ha cenato ieri sera, signore. In quel momento ero impegnato altrove”.

Se la memoria non m’inganna, credo che si chiami Valentina Volkova” esclamai facendo finta di ricordare improvvisamente il nome.

Il suo volto si aprì: “Ah sì! La signora Volkova occupa la cabina numero 4 della carrozza precedente a questa”.

Lo ringraziai e aggiunsi: “Sa… Le avevo promesso questa brochure e stamane non l’ho incontrata a colazione” e con gli occhi indicai i fogli stropicciati che stavo facendo finta di leggere prima.

Certo, signore” rispose l’uomo richiudendosi la porta alle spalle mentre usciva.

Mi pettinai, aggiustai il colletto della giacca e decisi di andare da lei.

Bussai con delicatezza: non volevo svegliarla. Non ci fu nessuna risposta. Attesi qualche secondo e poi ribussai con più vigore. Nulla. Rimasi un paio di minuti davanti alla porta ma non udii nessun suono provenire dall’interno.

Che si fosse sentita male durante la notte?” pensai “Il conduttore potrebbe aprire la porta con il suo pass-par-tout, ma prima di allertarlo è meglio che aspetti ancora un po’”.

Andai al bar e ordinai una vodka. La mandai giù tutta d’un sorso e rimasi immobile a contemplare il paesaggio interiore che si stava dipingendo in me. All’esterno montagne fredde e frastagliate di boschi. Nel mio intimo, il calore della leggerezza e il ricordo di quelle parole incomprensibili che Valentina mi aveva sussurrato accompagnando i suoi gemiti.

Non ero mai stato con una donna così risoluta. In genere avevo sempre corteggiato le signore che mi piacevano e talvolta avevo perfino avuto bisogno di trovarmi da solo delle validissime ragioni per non mollare e soddisfare altrove i miei desideri.

In fondo – ne sono convinto ormai da tempo – il desiderio è sempre informe, indistinto, mentre è nel pieno della sua gioventù, invece diventa preciso, logico, calcolato, quando è ormai prossimo alla sua estinzione. Per me una donna deve sempre serbare un che di incognito e, qualora disgraziatamente dovessi scoprirlo prima del previsto, mi troverei certamente costretto a giocare un bluff con me stesso.

Con Valentina, invece, era stato diverso. A tavola non la desideravo affatto. Era molto attraente e i suoi modi così esteriormente gelidi mi donavano un senso di appagamento senza il pensiero di alcuna velleità. Ma quando si era presentata alla porta della mia cabina, come una bufera che chiede anch’essa di godere del mio camino, lei stessa aveva creato la voragine del desiderio, ne aveva definito i contorni e si era posta come unica pietra in grado di completare quel vuoto. Fare l’amore con lei era stato quindi più un atto sacrale che un banale sfogo sessuale: avevo dato al freddo del paesaggio la dignità del possibile e avevo quindi distrutto la mia fortezza ben calda per ritrovarmi senza più la necessità del confronto tra dentro e fuori, tra il fuoco che scoppietta e la pioggia che martella sul selciato.

Attesi sino ad ora di cena, saltai il pranzo preferendo solo un tramezzino e prenotai un tavolo per evitare di dover attendere in piedi.

Quando giunsi alla cabina ristorante lei non c’era. Il maître mi indicò il mio posto e mi portò il menu. Scelsi un antipasto e del branzino, con un vino bianco a discrezione del sommelier. L’uomo mi ringraziò e si avviò verso la cucina.

Mentre stavo per terminare anche il secondo, Valentina entrò nella saletta in compagnia di un uomo sulla sessantina, brizzolato e con un fisico alquanto trascurato. Si sedettero al primo tavolo sorridendosi come due innamorati in luna di miele.

Io, incapace di accettare ciò che avevo davanti agli occhi, riempii il bicchiere e mi voltai nella loro direzione, come se volessi osservare l’ampiezza di quel vagone: lei mi vide, abbassò leggermente il capo e tornò a guardare il suo interlocutore.

Restai amaramente deluso: mi sarai aspettato uno sguardo più provocante, più promettente, ma capii di essere stato solo uno tra i tanti. Terminai la cena e mi avviai a passo deciso verso la mia cabina.

Che troia!” pensai “Cerca ogni giorno un uomo diverso… tanto per non per annoiarsi!

In cuor mio, sentivo tuttavia di essere profondamente ferito. Non nell’orgoglio, così come sarebbe fin troppo facile pensare, ma nella privazione di un oggetto che si era scavato da solo il posto nella mia anima.

Ordinai un’altra vodka al conduttore e mi lasciai andare all’estasi di quel momento, senza più subire le ingerenze degli acquazzoni che talvolta sferzavano il vagone.

Rimasi intrappolato nei miei pensieri per parecchio tempo. Sentivo gli scambi sotto di me, come pungoli per buoi che svegliano dal sonno dell’inedia e riportano alla realtà. Alla fine mi rassegnai. Valentina aveva un altro compagno per quella notte e, in fin dei conti, lo avrebbe trovato comunque a Parigi o in qualsiasi posto lei fosse diretta: la nostra era stata solo un’avventura temporanea, un escamotage per evitare la noia di una notte in treno.

Mi tolsi i vestiti, abbassai il finestrino e accesi un sigaro. Il freddo mi ridonò un tenue vigore. Fumai per qualche minuto, ma di nuovo l’aria gelida mi rese insopportabile anche quel piacere. Gettai via il mozzicone, chiusi tutto, abbassai lo scuro e mi distesi a letto. Ero triste. Non come colui che prova un vero dolore, ma piuttosto come un soldato che torna a casa illeso, anche se privo di onorificenze appuntate sul suo petto e sicuro che non vi sarà più alcuna guerra in cui potersi distinguere.

Provai a dormire ma non avevo sonno e mi rigirai nella piccola cuccetta diverse volte. Iniziai ad innervosirmi: quello non era tempo per dormire. Stavo vivendo un’adulterazione della mia realtà e ciò mi indisponeva terribilmente.

Mi rialzai, riaccesi la luce e mi misi addosso un paio di jeans e un maglione. Uscii e mi diressi verso la cabina di Valentina.

Sarà certamente in quella del brizzolato…” pensai con delusione.

Arrivato dietro alla sua porta, tuttavia, udii delle risate sommesse e un chiacchiericcio indistinto. Rimasi ad ascoltare. Parlavano in una lingua che non comprendevo; a tratti sembrava un idioma slavo, ma per me restavano comunque solo suoni gutturali intervallati da risatine.

Passai un quarto d’ora muovendomi qua e là per non dare l’impressione di essere uno scocciatore che importuna i passeggeri. Ad un certo punto non si udì più nulla: avevano certamente iniziato a fare l’amore.

Chissà se lei si sarà gettata sul letto” pensai “O se avrà aspettato prima lui, come ha fatto con me

Ebbi la sensazione di essere un bambino che origlia nella camera dei genitori, ma in quel caso la differenza era netta. Valentina avrebbe fatto con quel signore lo stesso che aveva fatto con me. Non esisteva alcun mistero, eppure il fatto di essere escluso, di dover ascoltare come un mendicante le briciole del loro amplesso, mi rendeva nervoso.

Mi imposi autocontrollo. La cosa più logica era di fare ritorno nella mia cabina e provare a dormire: in fondo l’avevo posseduto anch’io: di cosa potevo dunque lamentarmi?

Ero quasi sul punto di tornare indietro, quando sentii le stesse parole in russo che Valentina aveva detto a me. Provai un attimo di eccitazione e subito dopo una rabbia incontenibile. Il desiderio che lei aveva squarciato nel mio petto per porvisi con tutto il suo corpo era adesso riprodotto come una stampa di Picasso nella vita di quell’uomo!

Osservai fuori dal finestrino. Pioveva. Capii di nuovo che c’era molto freddo al di là della lamiera del treno e sentii il tepore del mio corpo come se fossi di fronte ad una stufa. Imprecai in silenzio e ritornai nella mia cuccetta. Il sonno ebbe la meglio.

Mi risvegliai tardi l’indomani mattina e mi resi conto che in poche ore saremmo arrivati a Parigi. Mi lavai, mi vestii per bene e andai al bar a chiedere un caffè. L’aria era calma, sia nel vagone che all’esterno. Le piogge erano passate e splendeva un sole leggermente impallidito da qualche nube.

Mi accesi un sigaro nell’area pubblica per fumatori e rimasi a guardare le persone che conversavano davanti alle loro colazioni.

In tarda mattinata il treno entrò nella stazione di arrivo. Il conduttore, poco prima che comparissero le costruzioni di periferia, si era premurato di chiedere a tutti i passeggeri se avessero bisogno di aiuto. A me venne stupidamente da ridere pensando che ci fossero ancora i facchini alle stazioni. Rifiutai dicendo che potevo fare da solo e mi avviai verso l’uscita.

L’aria di Parigi era frizzante ma non fredda come quella di Budapest. Mi slacciai il giaccone e mi diressi verso l’uscita della stazione.

Dopo essermi divincolato da un gruppo familiare impegnato a smistare i suoi bagagli, tra un paio di signori in abito scuro e Borsalino, rividi Valentina. Aveva un grazioso tailleur grigio e verde e portava un cappellino con una decorazione forse un po’ troppo demodé.

Si voltò e mi vide avvicinarsi. Contrariamente a quanto mi sarei aspettato, mi sorrise senza remore e mi salutò: “Ci rivediamo! Alla fine, ma ci rivediamo…

Già…” risposi io evasivamente continuando a camminare.

Dopo pochi metri notai che l’uomo brizzolato con cui lei aveva trascorso la notte precedente era sceso anch’egli e si avvicinava a lei. Provai ancora più rabbia, sentendomi escluso anche nell’atto del commiato.

Hey!” esclamò lei quando ormai ero passato oltre, deciso a non voltarmi più: “Dove vai?

Risposi freddamente che andavo a prendere un taxi per non fare tardi ad un appuntamento di lavoro. L’uomo, nel frattempo, si era avvicinato a noi: “Che vorrà?” pensai sentendo nelle viscere quanto insolente poteva essere quel gesto.

Gavril” disse invece la donna rivolgendosi a lui “Permetti che ti presenti il commensale di cui ti ho parlato?” e poi, sorridendo verso di me “Gavril è mio marito. Abbiamo viaggiato insieme per trascorrere qualche giorno a Parigi”.

Rimasi basito e tesi la mano all’uomo incapace di credere quello che avevo appena udito. Nel medesimo istante, come con un déjà-vu, ricordai che le mogli russe acquisiscono il cognome del marito declinato al femminile. Dunque, mio malgrado, mi trovavo di fronte a Gavril Volkov!

Piacere di conoscerla!” esclamò vigorosamente “Avevo una forte emicrania la sera durante la quale ho lasciato Valentina sola… Lei può capirmi, una donna così… Chissà cosa avrà combinato…” e scoppiò in una fragorosa risata, come se fosse completamente ubriaco.

Come le tessere di un domino, iniziammo a ridere tutti. Valentina arrossì leggermente, ma volse subito lo sguardo verso un cartellone pubblicitario della Coca-Cola. Io sentii nuovamente la voragine farsi strada nelle mie viscere.

Ne abbia cura qui a Parigi! E’ un luogo di donnaioli…” esclamai continuando a sorridere.

Sarò un segugio! Valentina non mi scappa!” rispose lui con toni da buffone, mentre cingeva la moglie con le braccia smagrite ma tenaci.

Ci stringemmo di nuovo la mano come vecchi amici e ci avviammo, ognuno per la propria strada, verso il cuore pulsante della sempreverde Parigi.


Depositato per la tutela legale presso Patamu: certificato


Foto di Chris Yang e Alejandra Quiroz


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