Montale: l’esistenza su di un coccio aguzzo di bottiglia

Parlare degnamente di Eugenio Montale (1896 – 1981) richiederebbe certamente molto più spazio di quello concesso da un semplice articolo, tuttavia, pur non aspirando a condurre un’analisi critica esaustiva, desidero analizzare solo alcuni aspetti della sua poetica. In particolare, vorrei porre l’accento sull’approccio esistenzialista di alcune tra le sue più famose poesie.

Eugenio Montale insieme a un'upupa
Eugenio Montale mentre fissa un’upupa

Breve nota biografica introduttiva

Eugenio Montale è nato a Genova, in Italia, nel 1896. È stato un rinomato poeta e critico italiano, ampiamente considerato come una delle più grandi figure letterarie del XX secolo. Il percorso poetico di Montale inizia durante gli studi presso l’Università di Genova, dove matura una profonda passione per la letteratura e la scrittura. I suoi primi lavori mostravano il suo profondo amore per la sua terra natale, esplorando temi della natura, dell’amore e delle complessità dell’esistenza umana.

Tuttavia, fu solo quando Montale si trasferì a Firenze negli anni ’20 che la sua voce poetica fiorì veramente. Influenzato dai movimenti letterari del simbolismo e dell’ermetismo, abbracciò uno stile più distintivo e introspettivo. La poesia di Montale si caratterizza per il suo linguaggio elegante ed evocativo, nonché per le sue profonde sfumature filosofiche ed esistenziali.

Nel corso della sua carriera, Montale ha ricevuto numerosi riconoscimenti per i suoi contributi alla letteratura italiana, tra cui il Premio Nobel per la letteratura nel 1975. Le sue poesie continuano a risuonare tra i lettori di tutto il mondo, catturando l’essenza dell’esperienza umana in tutte le sue complessità.

L’eredità di Eugenio Montale come visionario poetico dura ancora oggi, e le sue parole servono come testimonianza del potere del linguaggio e della sua capacità di trascendere il tempo e il luogo. Le sue opere rimangono fonte d’ispirazione sia per aspiranti poeti che per amanti della letteratura, e il suo impatto sulla cultura italiana è incommensurabile.

Vivere: un’inevitabile realtà ammantata di malessere

Il primo e più importante elemento filosofico che ritroviamo nelle opere poetiche di Montale è proprio la presa di coscienza che la vita non è un processo che l’uomo subisce (in quanto, secondo Heidegger, ente con la modalità dell’essere-nel-mondo). Una condizione ineludibile (a meno, ovviamente, di porvi fine con la forza), la cui sostanza non è generalmente in grado di appagare le necessità esistenziali dell’uomo stesso.

Così come Albert Camus, aveva abilmente rappresentato la condizione umana tramite la comparazione con la figura mitologica di Sisifo, costretto in eterno a salire dalla valle sino alla cima di un monte spingendo un grosso masso, per vederlo subito ricadere giù non appena avesse raggiunto l’apparente coronamento del suo sforzo, Montale sa bene che nessuna realtà umana può colmare il vuoto che l’esistenza crea per emergere nel mondo.

Nella sua celeberrima raccolta “Ossi di seppia“, egli riesce a condensare, in un ermetismo che sposta intere descrizioni all’interno di singoli versi, la sua presa di coscienza di essere umano:

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

L’incipit non lascia spazio alla fantasia: è tagliente e fulmineo. Il poeta conosce il “male di vivere” e lo ha interiorizzato al punto di considerarlo una parte di sè, a volte silente, ma molto più spesso, viva e pulsante. Le similitudini che seguono il verso d’apertura, come una sviluppo musicale, ripetono le stesse parole, ma colorandole in modi diversi. Non esistono tanti mali di vivere. Non esistono tante esperienze dal carattere screziato di malessere.

Esiste solo una lucida e costante presa di coscienza che, in un mondo “polifonico” e “politimbrico”, non può che assumere forme dall’apparenza diversa. Il susseguirsi dei tre versi dopo l’apertura della prima strofa lo conferma in modo inequivocabile. Non è il “rivo strozzato” o “la foglia incartocciata” a indicare la realtà del malessere, ma pittosto, è proprio quest’ultima a riflettersi nella realtà, come un motivo sinfonico che passa da un gruppo strumentale all’altro, sino a coinvolgere l’intera orchestra, dopo aver risuonato in tutte le sue sfacettature.

Statua di un uomo affilitto che si regge il capo con la mano
Statua di un uomo affilitto che si regge il capo con la mano

Tuttavia, come vedremo anche in altri componimenti poetici, si ha quasi sempre l’impressione che il pessimismo di Montale non scaturisca da una presa di coscienza “universale”, “cosmica” (per certi versi simile a quella espressa sovente da Giacomo Leopardi), ma, che al contrario, essa possieda sempre uno squarcio, un’incompletezza che lascia trapelare ciò che si contrappone al malessere. “Il prodigio della divina Indifferenza” esiste, l’autore lo conosce, ma è come un dipinto prezioso protetto da una teca di vetro indistruttibile e, a tratti, opaca. Egli vede i contorni delle forme, ma la sua mano, chissà, talvolta tesa verso di essa, finisce sempre per urtare la fredda e impassible superficie protettiva.

Essere-nel-mondo ovvero mal-essere

L’uomo è condannato a essere tale, ma, se a prima vista, potrebbe sembrare che tale condizione sia assimilabile a quella di un animale in gabbia, un’analisi più accurata mostra un paesaggio ben diverso. L’uomo, infatti, è consapevole del suo malessere poichè lo contrappone, almeno in via teorica, a un corrispondente positivo. In altre parole, Montale (così come ogni uomo assennato, d’altronde) concepisce il “benessere”, ma, se il malessere è palese, si materializza nel falco, o nell’impassibilità della statua al centro di una piazzetta assolata, il benessere è etereo, sfuggente, a tratti perfino indefinibile. In tale condizione, esso rivela la sua terribile natura, più tagliente di una lama, ma inconsistente come un ammasso di nuvole in un cielo di mezza estate.

Una serie di gradini di pietra nel mezzo di una foresta
Una serie di gradini di pietra nel mezzo di un boschetto

Quando la natura concerta le sfumature del malessere

Una delle più famose poesie di Montale, “Meriggiare pallido e assorto”, anticipa i temi che il poeta ritroverà, amplificati e multiformi, durante la sua maturità artistica. Il contesto è quello del paesaggio rurale ligure, compresso tra i monti e il mare, durante un torrido mese estivo. E’ interessante notare come la scelta delle ambientazioni ricada spesso in luoghi desolati ma “ricolmi di luce”. Il sole del primo pomeriggio, per Montale, non è affatto un piacevole compagno di meditazione o di riposo, una risorsa, quindi, benevola, che elargisce calore ed energia.

L’estate: deserto ove gli echi urlano la condizione umana

Esso è piuttosto un ospite invadente che, per sua stessa natura, travalica ogni confine, si spande, penetra nel privato e lo domina. Senza troppe remore, possiamo dire che il sole di Montale è la più pregnante rappresentazione del malessere. Non per la sua intrinseca natura, ma per la condizione esistenziale che esso riveste. D’altronde, nelle liriche del poeta, non troviamo mai versi leopardiani come “…per me la vita è male…” (i.e., Canto notturno di un pastore errante dell’Asia).

Per Montale, il male non ha fattezze così definite e non è nemmeno qualcosa di cui ci si può troppo facilmente lamentare. La vita è “male” per ogni uomo consapevole, al punto da perdere comunemente quest’attributo. Il malessere è la modalità più genuina di realizzare la propria natura umana: non esistono persone che possono sfuggire a tale sorte, se non forse gli psicotici e i bambini neonati.

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

La poesia è un capovaloro sia linguistico che musicale, la cui analisi richiederebbe un articolo a sè. In questa sede, mi limiterò a mettere in evidenza solo i punti che enfatizzano la condizione esistenziale dell’uomo. Montale suddivide il componimento in 3 + 1 strofe, assegnado alle prime il ruolo introduttivo e di preparazione e, all’ultima, la sintesi dell’intero discorso poetico. Il malessere fa capolino immediatamente, a partire dalla riuscitissima scelta di usare il tempo verbale infinito. Nelle prime tre strofe, troviamo “Meriggiare”, “Ascoltare”, “Spiare” e “Osservare”. Chi si fa carico di tutto ciò?

L’uomo quale icona dell’impersonalità

La trovata geniale è proprio quella della ricerca dell’impersonalità. Se il malessere è il modo d’essere dell’uomo, qualunque assegnazione di soggetto risulta limitativa. Inoltre, l’infinito definisce una sorta di dicotomia passività-attività: non “si ascolta” nè “si osserva” poichè ciò potrebbe indurre a pensare a un atto di volontà, a una scelta deliberata. Ma ciò darebbe al soggetto fin troppo controllo sulla sua sorte esistenziale. L’uomo vive, senza volerlo, il modo d’essere dell’osservare. A meno di non chiudere i propri occhi (trovandosi comunque di fronte ad una distesa di nero) o di essere cieco, egli deve (senza che alcuno lo inponga) osservare, ascoltare, spiare, perchè essi non sono che aspetti transitori dell’essere-nel-mondo.

Specchio d'acqua calmo durante il tramonto. Un richiamo al sole che abbaglia citato da Montale
Specchio d’acqua calmo durante il tramonto

La preparazione delle prime tre strofe è basata su descrizioni bucoliche, suoni, immagini, tutti descritti attraverso consonanze e un’accurata scelta di termini onomatopeici. Tutto ciò concorre a definire quel sottofondo imperituro destinato a tornare in vita, come il masso di Sisifo ai piedi della montagna. Leggere questi versi non assogmiglia ad ascoltare la sinfonia Pastorale di Beethoven. In Montale, “l’ascoltatore” non presta alcuna attenzione, non segue l’evolversi dei motivi, il sopraggiungere di un gruppo strumentale, l’alternarsi di fiati e archi. In Montale, ogni immagine viene introiettata senza volontà. Citando un verso di Fabrizio De Andrè, essa è come “…come il fumo lei penetra ogni fessura…

Il malessere è multiforme, ma ha un solo volto

Ecco che il male di vivere ritorna con nuove vesti, ora sotto forma di cicala, ora di serpe o formica. Non importa quale sembianze esso può assumere. Ciò che realmente lo rende unico e invulnerabile è proprio la sua passività nei confronti della percezione umana. Esso si presenta poichè nessun uomo potrebbe non accoglierlo e, se anche ci si ponesse tale scopo, in questa scelta si nasconderebbe solo la trasfigurazione dello sforzo di Sisifo. Un tentativo, secondo Camus, da fare senza indugio, ma che, ahimè, esiste solo ed esclusivamente per fallire.

L’uomo in rivolta di Camus diventa l’uomo in cammino di Montale

L’ultima strofa cambia il registro ritmico: dall’infinito si passa al gerundio. Anch’esso impersonale, freddo, quasi asettico, ma dotato di dinamicità. L’uomo va, cammina, si muove, non può stare fermo, poichè il tempo è al di fuori di esso e non può che essere subìto. Così come una composizione musicale, l’essere-nel-mondo si dispiega nel fluire del tempo e contrappone, alla stasi di un’osservazione apparentemente impassibile, la realtà inesorabile dei battiti del metronomo.

L’esistenza è proietatta come la freccia del tempo definita in Termodinamica e il punto di fuga, gloria e maledizione di Giotto, attira a sè per annichilire. In un microcosmo adimensionale, l’uomo, forse, trova il coronamento della sua esistenza, ma tutto ciò non è che una chimera, un asintoto. Ciò che si può constatare è solo l’inarrestabile moto verso un sole graffiante, che irradia per accecare e, chissà, forse anche per mostrare l’estrema pietà all’uomo vittima del mondo: privarlo infine della vista e renderlo quindi salvo dalla condanna di Sisifo.

Rappresentazione teatralizzata del mito di Sisifo
Rappresentazione teatralizzata del mito di Sisifo

Essere uomo vuol dire essere solo

Ci si potrebbe chiedere se questo cammino, questo sforzo verso l’infinito (grande o piccolo che sia) non porti un sollievo. E’ una domanda legittima e, forse una speranza che si cela in ogni cuore, ma l’esistenzialismo si è preso l’onere di rispondere a tale interrogativo, attirandosi forse l’odio dei più disperati. Per Montale, il cammino è necessario, inarrestabile, ma altresì terribilmente solitario. Non ci sono compagni di sventura, pur sapendo che l’intera umanità vive nel malessere.

E’ questa forse la scoperta più sconvolgente, il terribile anatema lanciato da un Dio vittima della sua stessa natura unitaria. La solitudine dovrà accompagnare ogni essere umano, lo dovrà tenere per mano e, come un feroce aguzzino, sostenerlo quando le sue forze vengono meno. Non si può non soffrire e non si può non soffrire nella solitudine. Una muraglia separa il cammino di ogni uomo, ma non si tratta solo di un semplice ostacolo naturale. E’ l’uomo stesso, ponendovi sopra cocci di bottoglia (i.e., tecnica contadina per dissuadere i ladri), masochisticamente, a rendere impossibile l’atto di scavalcare, di infrangere, anche solo per un istante, questa regola tremenda.

L’amore e la cura, baluardi di Heidegger, naufragano in Montale

Cosa dire dell’amore, del genuino desiderare l’unione con l’altro? Può ciò essere una via di fuga? Secondo Heidegger, la cura (ovvero, il prendersi cura) è la modalità d’essere che più si adatta alla natura umana, ma quanto è forte tale legame? Quali prerogative esso può avere? La splendida poesia “Casa sul mare” risponde anche a tali interrogtivi.

ll viaggio finisce qui:
nelle cure meschine che dividono
l'anima che non sa più dare un grido.
Ora i minuti sono eguali e fissi
come i giri di ruota della pompa.
Un giro: un salir d'acqua che rimbomba.
Un altro, altr'acqua, a tratti un cigolio.

Il viaggio finisce a questa spiaggia
che tentano gli assidui e lenti flussi.
Nulla disvela se non pigri fumi
la marina che tramano di conche
i soffi leni: ed è raro che appaia
nella bonaccia muta
tra l'isole dell'aria migrabonde
la Corsica dorsuta o la Capraia.

Tu chiedi se così tutto vanisce
in questa poca nebbia di memorie;
se nell'ora che torpe o nel sospiro
del frangente si compie ogni destino.
Vorrei dirti che no, che ti s'appressa
l'ora che passerai di là dal tempo;
forse solo chi vuole s'infinita,
e questo tu potrai, chissà, non io.
Penso che per i più non sia salvezza,
ma taluno sovverta ogni disegno,
passi il varco, qual volle si ritrovi.
Vorrei prima di cedere segnarti
codesta via di fuga
labile come nei sommossi campi
del mare spuma o ruga.
Ti dono anche l'avara mia speranza.
A' nuovi giorni, stanco, non so crescerla:
l'offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.

Il cammino finisce a queste prode
che rode la marea col moto alterno.
Il tuo cuore vicino che non m'ode
salpa già forse per l'eterno.

Nella descrizione di un paesaggio marino, tipicamente ligure, in cui compaiono, perlomeno nella memoria, le isole a nord della Sardegna, Montale riflette sull’amore. In questa lirica, non sono gli schiocchi dei merli o le lucertole a segnare il ritmo di fondo dell’esistenza, ma il lento, debole e grave moto regolare delle onde. Come un timpano in pianissimo, gli “assidui e lenti flussi” imitano il battito di un cuore apparentemente lontano.

Una casa bianca sulla riva del mare, simile alla casa citata di Montale
Una casa bianca sulla riva del mare

Il poeta sembra solo, seduto sulla spiaggia, mentre medita. Ma ciò è solo un’illusione: esiste un interlocutore, indistinto, ma riconoscibile nell’archetipo del compagno di vita – della propria moglie, in questo caso. Si tratta forse, proprio di Drusilla Tanzi, reale consorte di Montale, a cui il poeta si rivolge con un’agghiacciante dolcezza. Non con parole soavi e versi sublimi. Non con metafore luminose, come nel Cantico dei Cantici, ma piuttosto con un’arida dichiarazione testamentaria.

Montale e la speranza: tra la volontà di trascendenza e gli artigli del materialismo

Il poeta, come in “Meriggiare pallido e assorto”, intravede l’infinito. Come in un taglio di Lucio Fontana, egli sa che qualcosa deve pur esserci tra le braci incandescenti che attirano il cammino dell’esistenza. E forse, proprio la sua compagna è colei che, più di ogni altra cosa, gli ricorda questa immagine. Ma Montale è stanco, il suo cammino è stato lungo e infruttuoso, per questo, in un meraviglioso atto d’amore, dona la sua stessa speranza alla sua donna, affinchè il Fato – definizione volutamente evanascente, la scampi e le doni ciò a cui egli stesso ha sempre anelato.

Ma anche questo atto, nella sua straordinaria essenza, sembra destinato a cadere nel vano. Montale parla, o, forse, proprio come la risacca, si limita a sussurrare, prendendo fiato tra una parola e l’altra. Egli cerca disperatamente di oltrepassare quel muro frastagliato con pezzi di vetro acuminato. Non gli importa, chissà, di ferirsi o financo di morire; ciò che più conta è giungere a sfiorare davvero la mano della sua amata. Ma purtroppo, la solitudine non ammette deroghe; anche nelle unioni apparantemente più intime, si cela l’inganno, l’illusione.

"Concetto spaziale: le attese" di Lucio Fontana, una metafora del pensiero poetico di Montale
“Concetto spaziale: le attese” di Lucio Fontana

Drusilla è seduta vicina a lui, ma è come se fosse assente, poichè la sua vera presenza è al di là del muro. E Montale lo sa, descrivendo con una sorta di ossimoro, la sua condizione: “il cuore vicino che non m’ode“. Non si tratta di una sordità biologica o, perfino, psicologica, ma della sorte di ogni uomo. La vicinanza è inafferrabile perfino dalla voce e quindi, in uno slancio di apparente ottimismo, egli presume che questo cuore tanto cercato abbia infine scoperto la “via di fuga” e, come un battello pronto per salpare, si muova già, lento, ma inesorabile, verso quello che solo lei, la sua compagna di vita, conosce non più come un disaminato punto d’attrazione, ma come il vero e proprio eterno, quell’infinito che Montale ha intravisto tra le pieghe di un concetto spaziale di Fontana.

Osare è lecito, ma non è consentito

Se egli conosce questo squarcio e, senza eccesso di libertà, l’infinito che si cela dietro di esso, perchè non desidera comunicarlo? In effetti, Montale non si rifiuta, anche se l’apparenza potrebbe essere questa; egli “semplicemente” sa di non poter soddisfare questo comune desiderio.

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
Perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Nella poesia “Non chiederci la parola”, troviamo una risposta al nostro interrogativo. La “parola” o “formula” esiste, altrimenti non avrebbe senso parlarne, ma ciò non implica che essa sia accessibile o comunicabile. L’impressione che si ha leggendo questa lirica è di un Montale ritto su un palchetto preparato per un comizio politico di altri tempi, circondato da una folla di persone che attendono con la testa leggermente rivolta all’insù.

Il sole e la muraglia: compagni per l’eternità

Il poeta non teme di deludere o di perdere popolarità e la sua risposta è tranchant: non chiedete, non domandate, poichè (questo, forse, lo pensa soltanto) “io non potrò rispondervi”. Forse esistono uomini che si arrogano questo diritto, ma non avendo strumento alcuno per sovvertire la realtà esistenziale del genere umano, rivolgono il loro sguardo alla folla mentre proclamano le loro verità; ma non possono curarsi dell’ombra – dell’evidenza inequivocabile, che lo stesso sole di “Meriggiare pallido e assorto” proietta sul muro della loro solitudine.

Nessuna formula può svelare la “falsità della verità”. Anche se gli squarci si moltiplicano come batteri e sempre più spesso è possibile intravedere quell’indistinto fondale, tali mondi sono preclusi. Lacan direbbe che sono al di là del linguaggio e quindi impossibili da manipolare con gli strumenti a nostra disposizione. E’ tuttavia possibile proferire qualche “storta sillaba”, fare un tentativo notoriamente fallimentare, ma pur sempre fattibile. Contorcere le proprie labbra per sogghignare un verso informe, arido, privo di contenuto. Come un osso di seppia, è solo questo ciò che si può dire. Null’altro. Il muro è troppo spesso per lasciare sfuggire perfino un sibilo e la sua conoscenza più simile alle contorsioni di un allucinato che alle nozioni dettata a una classe di alunni.

Lettera d'amore in bianco e rosso
Lettere organizzate a formare un’incerta scritta “Panic”

L’esistenza su un coccio aguzzo di bottiglia

Per adesso, penso che sia giunto il momento di fermarmi. Nessuna discussione su Montale può essere esaustiva: la sua poetica è talmente ricca e attuale da coinvolgere ogni persona, a seconda dei diversi livelli di sensibilità. Ciò che desideravo mettere in evidenza (pur limitatamente) è l’approccio esistenziale della sua produzione artistica, in particolare, alcune sfaccettature del suo pensiero, che troppo spesso viene marchiato di pessimismo, senza fornire i giusti elementi di valutazione.

Montale è stato un uomo capace di trasformare vari contenuti filosofici raccolti in grossi volumi in un fluire musicale di versi, ritmi, immagini, suoni e, infine, parole. Le sue poesie non si rifugiano in una ricerca forsennata di un linguaggio aulico, ma piuttosto nascono come se l’osservazione, l’introspezione e la tecnica poetica fossero parti concatenate di un unico processo creativo.

L’esistenza umana è sempre travagliata, ma ricercare questa sfavorevole condizione solo all’interno di contesti meramente sociali è rischioso. Per Montale, l’uomo è, prima di ogni altra cosa, colui che è destinato a essere tale, colui che vede il sole, lo nomina, lo invoca (come Dio o simulacro), ma mai e, in alcun modo, potrà giungere a esso, in una comunione finalmente totale, senza cadere strammazzato come un cavallo, cieco e con le mani sanguinanti. Perfino l’amore, apparentemente più solido e possente d’ogni capricciosa divinità, si consuma in un morente battito che prende il posto di ogni parola, di ogni sorriso, di ogni possibilità di condivisione.



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