Moti inarrestabili dello spirito: le rivoluzioni musicali al di là di ogni volontà di pianificazione

Sono fermamente convinto che le rivoluzioni musicali, come in ogni altra forma artistica, siano il risultato di un processo emergente, di una constatazione a posteriori, piuttosto che il frutto di scelte deliberate. Anzi, la storia conferma come queste ultime abbiano prodotto solo apparenti cambiamenti, il cui ciclo di vita si è estinto molto presto, lasciando solo un’evanescente traccia di cenere.

Nel suo libro “Rivoluzioni musicali“, Stuart Isacoff mette in risalto proprio tutti i momenti storici di svolta. Quegli eventi, le cui conseguenze hanno prodotto cambiamenti notevoli e durevoli e che, altresì, hanno contribuito a esaltare la potenza artistica della musica, quale medium “privilegiato” per la comunicazione emotiva.

Rivoluzioni musicali di Stuart Isacoff
Rivoluzioni musicali: Le idee che hanno cambiato la storia della musica, dal Medioevo al jazz di Stuart Isacoff

Se, come sosteneva Schoenberg, “l’arte deve riflettere la realtà e quindi, quando quest’ultima è brutta, anche la musica deve essere in grado di testimoniare la bruttezza”, è anche vero che la prima parte dell’affermazione implica che l’arte, in quanto specchio della realtà, non può che essere storica, seguire cioè una constante e inarrestabile evoluzione.

D’altro canto, è anche vero che la musica testimonia una realtà doppiamente soggettiva. Ovvero, soggettiva per il compositore che, per quanto possa cercare l’obiettività, sarà sempre “catturato” dalla sua stessa indole; e soggettiva per i fruitori, i quali, forse più che in ogni altra espressione artistica, decodificano i messaggi musicali senza alcuno schema oggettivamente definito.

In questo processo storico, è naturale che le idee nascano, crescano e giungano o, al loro coronamento, o, talvolta, periscano per dar posto a nuove idee. Inoltre, al contrario di rivoluzioni “pianificate a tavolino”, molte delle trovate più innovative sono passate quasi inosservate per un lungo tempo e, in certi casi, hanno perfino trovato enormi resistenze.

Basti pensare a Guido d’Arezzo, religioso e musicista che, stanco di un approccio didattico basato sulla pura comunicazione orale, pensò a un modo efficiente di codificare la musica e renderla disponibile a chiunque conoscesse la teoria di base. Grazie a lui, è oggi possibile suonare musica rinascimentale, barocca, etc., ma, che ci crediate o no, la sua idea, semplice e geniale al tempo stesso, fu osteggiata da numerosi maestri dei cori.

Le ragioni di queste ritrosie sono molteplici, ma sicuramente il primo posto spetta a una sorta di “idolatria conservatrice” che sembra fungere da schermo protettivo ogniqualvolta una forma artistica ha raggiunto un buon grado di maturità. Per ragioni che Freud potrebbe spiegare meglio di un musicologo, molti artisti preferivano non tentare le novità per paura di perdere le certezze che ormai avevano guadagnato la notorietà.

Non c’è quindi da stupirsi se l’ultimo Beethoven, ormai giunto alle soglie del romanticismo, abbia ricevuto aspre critiche per i suoi quartetti d’archi: “Se non sono piaciuti ai contemporanei, piaceranno ai posteri” soleva ripetere con serafica pazienza, quasi come se avesse compreso meglio di chiunque altro quali strani dinamiche regolassero il “mercato” dei piaceri.

E che dire di Bach, capace di intrecciare le più sublimi polifonie e fare della sua musica una raffinata teologia? Se esistevano numerosi contemporanei pronti a lodarlo, c’erano anche molti notabili ed ecclesiastici che criticavano i suoi modi “eccessivamente elaborati”, quasi pedanti. Non c’è da stupirsi che dopo la sua morte, il figlio Carl Philipp Emanuel, con uno stile maturo e personalissimo, dando vita al periodo del classicismo, gettasse involontariamente suo padre nell’oblio.

Targa marmorea di Guido Monaco detto d'Arezzo, in cui si fa riferimento al suo fondamentale contributo nella creazione della notazione musicale moderna.
Targa marmorea posta sulla casa dove nacque e visse Guido Monaco detto d’Arezzo. In essa si fa riferimento al suo fondamentale contributo nella creazione della notazione musicale moderna. Egli infatti, non solo inventò il tetragramma (antenato del pentagramma), ma trovò anche un modo molto ingegnoso per dare l’attuale nome latino alle note.

Solo durante il romanticismo, la ricerca delle radici storicamente classiche, portò compositori come Mendelssohn a rivalutare Bach e a nutrire per il Kantor una venerazione quasi religiosa. Ma ciò, in fin dei conti, non deve stupire. Mozart ammirava Bach e lo studiò a fondo per giungere alla composizione della famosa sinfonia Jupyter, dove la polifonia risuona quasi come un corale della Passione secondo Matteo.

Tuttavia, la forza della personalità (ovvero quell’elemento a cui abbiamo accennato all’inizio e che è la scintilla di ogni rivoluzione) non poteva lasciarsi cadere in un ricordo malinconico e in un’altrettanto patetico tentativo di imitazione. E’ naturale che la storia, nella sua inarrestabile progressione (concetto duro da accettare per coloro che fanno del conservatorismo una ragione di vita), sposti gli accenti, cambi le percezioni e, spesso spietatamente, faccia dimenticare ciò che non merita di finire in uno scantinato.

Ma, d’altro canto, in un processo organico, l’oblio è solo temporaneo. Il bello non tramonta; può nascondersi, allontanarsi dal dominio dei sensi, ma poi ritorna sempre sulla scena. E’ questo uno dei caratteri più sorprendenti dell’arte: essa, nonostante la sua storicità, possiede un valore atemporale (ovviamente, non parlo di valore finaziario) che non può essere intaccato dalle novità.

Chiunque ami Picasso e Dalì, non potrà non rimanere a bocca aperta mentre percorre la Cappella Sistina e ciò, lungi dallo sminuire il valore dell’astrattismo o del surrealismo, si basa proprio sulla constatazione che Michelangelo, nella sua epoca, era riuscito a rappresentare la realtà in modo mirabile. I suoi affreschi, infatti, pur facendo riferimenti a vicende bibliche, erano esattamente ciò che sia i committenti che il popolo si aspettava per testimoniare la grandezza di Dio (o, per meglio dire, del “Dio” da loro venerato, il quale forse necessitava più della grandiosità delle opere che dell’intimità della preghiera nel deserto).

E così potremmo continuare sino all’affermazione del jazz, del ragtime e poi della musica pop e rock. E’ bizzarro vedere come, mentre la “scuola di Vienna”, con il suo filone che vedeva protagonisti Haydn, Mozart, Beethoven, Brahms, Wagner, Schoenberg, etc. tentava (oserei dire, quasi disperatamente) di mantenere viva una tradizione ormai in declino, dall’altra parte del mondo (ovvero sia in America che in Asia), le culture musicali sviluppavano il loro stile, ignare che ben presto avrebbero guadagnato la ribalta.

Infatti, se è vero che Mozart ha contribuito alla causa musicale in modo straordinario, è anche vero che per la sua opera vale le medesima regola che si applica a Michelangelo, Raffaello e Caravaggio. Un estimatore di Duke Ellington o dei Led Zeppelin troverà sublime il primo movimento del concerto per pianoforte “Elvira Madigan”, ma, come è naturale, valuterà la sua bellezza proprio in rapporto al periodo storico passato in cui tale opera è stata concepita.

In conclusione, non posso che ribadire che l’arte è in continua rivoluzione e non perchè qualcuno decide di scrivere un manifesto sperando di trovare “adepti” pronti a sacrificare la propria soggettività alla causa comune, ma piuttosto perchè le idee individuali sono materiale vivo, storico e soggetto a riflettere la natura della società e della cultura.

In altre parole, le rivoluzioni artistiche avvengono in silenzio e se ne può constatare l’esistenza solo quando esse hanno ormai travalicato ogni confine e assunto a tutti gli effetti i caratteri di una pandemia benigna. Solo allora, osservando un paesaggio di Canalicchio, si capirà che l’impressionismo di Monet è molto più di una mera e singolare stravanganza.


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