Schönberg al pianoforte, Keith Richards alla chitarra

Arnold SchoenbergPrima di cominciare, desidero fare una precisazione. Io ammiro Arnold Schönberg (1874 – 1951), ho ascoltato diverse volte le sue composizioni, sia espressioniste che dodecafoniche, e ho letto i suoi libri (reputo il suo Trattato di Armonia un caposaldo della teoria musicale moderna).

Quindi, questo non vuole essere un articolo critico nei suoi confronti, ma piuttosto una discussione nella quale Schönberg rappresenta non un musicista, ma l’apripista di un modo di concepire la musica in netto contrasto con i compositori precedenti.

Nel 1878, 1889 e 1900 (per citare solo gli anni di nostro interesse), Parigi ha ospitato tre grandiose esposizioni universali. Queste, oltre che permettere di accogliere visitatori di tutto il mondo, hanno soprattuto permesso di “importare” una grande quantità di elementi esotici e parecchio lontani dalla cultura europea.

In particolar modo, le culture musicali persiane, asiatiche, e americane hanno fatto il loro ingresso trionfale in un’Europa dominata dal romanticismo, con il predominio assoluto del pianoforte e delle sue sonorità.

Musica, fino ad allora, quasi completamente confinata a specifici territori, è divenuta “globalizzata” e si è, quindi, candidata all’apprezzamento da parte di un pubblico nuovo, forse un po’ conservatore, ma pur sempre aperto a nuove esperienze.

A testimonianza di ciò, è sufficiente prendere in considerazione l’inflenza sino-giapponese sugli arredamenti e gli oggetti decorativi. Quello che di fatto stava avvenendo era una vera e propria rivoluzione in sordina, i cui guerriglieri erano gli stessi europei che, senza colpo ferire, iniziavano a osservare l’esoticità con un occhio sempre meno critico e sempre più interessato.

La cultura afro-americana che, nei campi di cotone dell’Alabama o del Mississippi e, soprattutto a New Orleans in Lousiana, aveva fatto nascere il blues e il jazz, iniziava a spandersi a macchia d’olio in un territorio dove la musica tonale era fortemente ancorata alle scale diatoniche e, solo timidamente, per esempio con Debussy, iniziava a esplorare le potenzialità delle scale esatonali e dei colori tipici di culture lontane. Senza troppi giri di parole, possiamo dire che questa nuova musica, meno formale, piaceva molto.

D’altro canto, anche la musica europea aveva “colonizzato” l’America e trovato un terreno molto fertile, grazie alle ampie sovvenzioni degli impresari. Ma, in tal senso, gli americani, pur apprezzando enormemente le opere classiche e romantiche europee, nutrivano un orgoglio insuperabile. In particolare, il jazz, figlio di una cultura forgiata dai soprusi e dalla segregazione, cercava una rivalsa che non snaturasse le idee originali, ma piuttosto le elevasse alla stessa maniera in cui gli europei avevano fatto con Bach, Mozart, Haydn, Beethoven, Chopin, Schubert, etc.

L’esistenza di due tensioni contrapposte: la prima centripeta, da parte dei jazzisti “puri”, e la seconda centrifuga, da parte dei frutitori estranei a quella cultura, si è presto risolta in un duplice risultato. Il jazz ha lentamente conquistato i palcoscenici più ambiti (primo fra tutti, la Carnegie Hall), mentre l’Europa ha iniziato a chiedere sempre più musica nuova, meno “canonica” e, in fin dei conti, più semplice da fruire (ciò non implica che, per esempio, l’armonia jazz sia semplici, anzi è estremamente complicata, ma i risultati finali e le sonorità non “sforzano” l’orecchio tanto quanto veniva comunemente preteso dai compositori europei).

Voi, probabilmente, vi starete chiedendo perchè ho tirato in ballo Schönberg, il quale faceva diligentemente il suo lavoro di compositore colto. La risposta (perlomeno, per quello che io penso e sostengo) è che egli, ignaro di una rivoluzione in atto, ha deciso di intraprendere il cammino doloroso del cambiamento, sperando forse di rappresentare meglio il suo tempo attraverso la musica. C’è da dire che le sue considerazioni, espresse, ad esempio, nelle lettere all’amico Kandinskij, sono assolutamente legittime e nessuno potrebbe obiettare che i suoi sforzi siano stati velleitari.

Al contrario, Schönberg sapeva perfettamente che ciò che desiderava perseguire era logicamente fondato, ma quello che trascurava (o forse, semplicemente, sottovalutava) era che, mentre l’atonalità e tutte le considerazioni sulla rivalutazione delle dissonanze nutrivano una musica sempre più intellettualistica, il pubblico aveva ormai abituato le sue orecchie a un modo di fare musica molto diverso.

La musica assoluta doveva essere più idonea all’intrattenimento e sempre meno pretenziosa e le canzoni, regine incontratate dei palcoscenici novecenteschi, dal canto loro, dovevano superare la staticità timbrica dell’opera e concentrare in un piccolo spazio svariati significati e sfumature cromatiche.

A poco (secondo me) valevano gli sforzi per rivalutre i Lieder da parte di grandissimi compositori (e.g., Mahler e lo stesso Schönberg), quando oltreoceano le voci timbricamente più disparate suscitavano un ventaglio di emozioni nuove. A mio parere, quindi, opere come il Pierrot Luinaire, piuttosto che rivoluzionarie, apparvero completamente inadeguate. La richiesta dei compositori, infatti, era divenuta perfino maggiore di quella dei romantici e classici. Se, infatti, questi ultimi rispettavano la cultura tonale, a cui il pubblico era abituato, la scuola di Schönberg iniziò a pretendere un intellettualismo sempre più spinto.

Era impossibile ascoltare il Pierrot Lunaire di Schönberg, con lo stesso orecchio con cui si ascoltava Shostakovich o Gershwin. E se Stravinskij passò attraverso innumerevoli vicissitudini a causa del suo neo-classicismo, egli almeno non poteva essere accusato di voler pretendere quello che il pubblico non desiderava affatto concedere. Secondo me, il cuore della questione è nascosto proprio in questo punto: tutte le sperimentazioni atonali, seriali, aleatorie, etc. che si sono succedute, partivano dal presupposto che la musica poteva e doveva seguire la stessa strada, per esempio, della pittura.

man in black pants sitting on chairPerchè Picasso, Dalì, Magritte, Pollock, Rotko, etc. potevano esporre e attirare folle oceaniche, tra cui svariati milionari pronti a pagare un patrimonio per accaparrarsi una delle loro tele, mentre la musica doveva continuare a seguire lo stile di Michelangelo o Caravaggio? Perchè Duchamp poteva avere l’ardire di esporre un orinatoio firmato e Webern, Stockhausen, Nono, Berio, Maderna, Sciarrino, etc. non possono vantare lo stesso diritto?

La questione è molto sottile e mi riprometto di approfondirla in articoli futuri, ma ciò che si può dire è che la musica non è pittura. Nella banalità di questa affermazione si cela la più incontrastabile delle verità. Se l’arte figurativa ha lo scopo principale di decorare (esprimendo anche innumerevoli significati, ma sempre e soltanto dopo aver assolto alla sua funzione primaria), la musica ha molte più difficoltà a convincere quando l’impatto sonoro non è più capace di suscitare alcunchè.

La pretesa di esprimere significati e concetti ideologici usando solo la musica assoluta (senza testi) è purtroppo destinata a continui insuccessi. Composizioni sperimentali basate sull’uso di sintetizzatori e altri marchingegni costruiti ad hoc, non mostravano alcuno spunto rivoluzionario. Mentre Stockhausen faceva questo, centinaia di musicisti pop, rock, etc. usano gli stessi strumenti (o analoghi, come la chitarra elettrica con catene di filtri) per produrre musica che accendeva gli animi.

Non vorrei sembrare dissacrante o banale, ma mentre Beethoven infiammava il pubblico di inizio ottocento con l’apertura semplicissima della quinta sinfonia, un secolo e mezzo dopo, i Deep Purple mandavano in delirio uno stadio con le altrettanto semplici note di apertura di Smoke on the Water!

Negarlo ha poco senso e cercare di trovare riparo nella ricerca di un elite che vada in estasi durante l’ascolto di una sequenza di Berio o una composizione di Sciarrino, vuol dire aver dichiarato apertamente che la battaglia è stata definitivamente persa.

La musica, infatti, deve perseguire l’idea di globalità e, non può farlo, se non riesce a compredere quali siano le esigenze e le volontà del pubblico più ampio. Ovviamente, ciò non toglie che i singoli compositori siano liberi di esprimersi come desiderano, eliminando la tonalità, utilizzando matrici e altri metodi matematici o, come John Cage, usando I Ching, per ricevere “suggerimenti dal mondo trascendente”. Il guaio, però, rimane e, se queste composizioni scivolano inesorabilmente nel dimenticatoio (mentre, ad esempio, le musiche di Morricone vengono suonate in tutte il mondo), non bisogna dare la colpa a una società incolta, ma forse solo a un linguaggio che, anche se insegnato, semplicemente non piace.


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Breve nota musicologica

Arnold Schönberg era un compositore noto per la sua innovazione e i suoi contributi rivoluzionari al mondo della musica. Fu un pioniere dell’atonalità e del serialismo, che trasformò completamente il tradizionale sistema tonale. Schönberg credeva che la musica dovesse essere libera dai vincoli della tonalità e cercò di creare un nuovo approccio artistico che riflettesse le complessità e le dissonanze del mondo moderno.

Una delle idee principali di Schönberg era il concetto di emancipazione della dissonanza. Sosteneva che i suoni dissonanti non erano intrinsecamente spiacevoli e potevano essere usati per evocare una vasta gamma di emozioni. Liberando la dissonanza dal suo ruolo tradizionale di fonte di tensione e risoluzione, Schönberg mirava a creare un linguaggio musicale più espressivo ed emotivamente carico.

Incipit delle Variazioni per Orchestra op. 31 di A. Schönberg, forse la più importante opera dodecafonica del compositore
Incipit delle Variazioni per Orchestra op. 31 di A. Schönberg, forse la più importante opera dodecafonica del compositore.

Nella sua ricerca teorica, Schönberg sviluppò la tecnica dodecafonica, nota anche come serialismo. Questo approccio organizzava tutte le dodici altezze della scala cromatica in una riga o serie, che serviva come base per la composizione. Utilizzando la tecnica dei dodici toni, Schönberg mirava a creare un senso di uguaglianza tra tutte le altezze ed eliminare la gerarchia delle tonalità.

Le idee e la ricerca teorica di Schönberg furono accolte con ammirazione e controversia. Mentre alcuni compositori e musicisti abbracciarono le sue idee innovative, altri criticarono il suo allontanamento dalla tonalità tradizionale. Indipendentemente da ciò, l’influenza di Schönberg sulla musica non può essere sopravvalutata. La sua ricerca di un nuovo approccio artistico ha aperto la strada alle future generazioni di compositori per esplorare nuove possibilità e ampliare i confini dell’espressione musicale.


Riferimenti

Un libro molto interessante che consiglio a tutti i musicofili è: Isacoff S., Rivoluzioni musicali. Le idee che hanno cambiato la storia della musica, dal Medioevo al jazz, EDT, 2023


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