Commedia contemporanea (Parte IV)

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Parte IV

Quando si svegliò, Irene era già uscita. Gli aveva lasciato un biglietto in cui lo avvisava che sarebbe tornata nel primo pomeriggio; nel frattempo Fausto, qualora non avesse desiderato tornare a Roma, avrebbe potuto dormire, passeggiare, scrivere, guardare la televisione o, più semplicemente, annoiarsi. Tra tutte le possibili opzioni, scelse innanzi tutto quella di telefonare a Cora.

Ti ho risposto solo perché conservo ancora un minimo di dignità umana” esordì la donna “Ma credimi, il tuo comportamento non ammette alcuna spiegazione… A meno, ovviamente, che non sei finito in ospedale per un motivo non imputabile alla tua volontà. Sei in fin di vita, dunque?

Fausto scoppiò a ridere: “E’ davvero strana la vita! Ti potrei dare ragione, ma facendo ciò negherei l’evidenza… Che guaio!

E’ davvero un guaio. Ma per me! Per la mia stupidità! Si può sapere cosa ti è successo? Ti ho aspettato tutta la notte… E tu? Tu te la spassavi con quella sgualdrina di mia cugina!

Cora aveva ragione e, per questo, si aspettava qualunque scusa tranne quella che la sua mente aveva partorito come extrema ratio. Fausto si limitò ad una mezza verità e le disse che era stato con Irene, la quale aveva approfittato di quel momento per scaricare i suoi nervi: era stato un compito increscioso ma essenziale, il che, senza dubbio, era vero.

Potevi almeno avvisarmi!” esclamò Cora.

Se l’avessi fatto, tu mi avresti chiesto di mollare tutto e tornare a casa… E, a quel punto, mi sarei trovato doppiamente in imbarazzo”.

Ah… Certo, se avessi saputo che il tuo interessamento sarebbe arrivato a questo punto, non ti avrei certo chiesto di incontrarla!

Non l’hai fatto…” puntualizzò Fausto “Se ricordi bene, sono stato io ad offrirmi per questa incombenza”.

Incombenza che ti sei cercato da solo! E comunque basta! Non so cosa ti stia prendendo, ma ho l’impressione che tu stia andando fuori di testa. Ad ogni modo, mi racconterai di presenza. Adesso devo tornare al lavoro”.

L’uomo la fermò: “Pensi che sia possibile dimenticare che esiste un mondo al di là della propria celletta dopo che si è stati costretti a visitarlo?

Ma cosa stai blaterando? Non ti capisco!

Oppure” continuò, incurante delle proteste dell’interlocutrice “Dimenticare come si parla? Dopo aver vissuto in un ambiente sociale sin dalla culla?

Cora rimase in silenzio. Si udiva solo il suo respiro lento e un insieme indistinto di voci e di suoni in sottofondo.

Potrei provarci, certo, ma pensi che sia possibile? Voglio dire, ci si può illudere o, peggio ancora, tentare pur essendo consapevoli dell’inevitabile insuccesso, ma tutto ciò non cambia le cose”.

Hai parlato di questo con Irene?” gli chiese Cora con un filo di voce.

No, no… Irene mi ha solo raccontato i suoi trascorsi”.

Ti ha raccontato i suoi trascorsi…” fece eco la donna. Il suo tono era mutato. Un artista grafico direbbe che impallidì o sbiancò e la sinestesia, in questo caso, è proprio la scelta più azzeccata. Il suo tono perse il colore, come si fosse improvvisamente specchiato su una superficie filtrante. Una superficie che, restando nell’ambito della poetica, parlava all’interno del suo telefono e, senza ragione, aveva iniziato a cambiare le regole del gioco.

Il cielo era diventato mare. Il mare grano. Il grano cemento e così via senza tregua. Ma in questa fuga qualcosa era rimasto al suo posto, come un papavero tra le spighe, e si rifiutava di trovare una nuova collocazione. Cora impietrì di fronte ad un papavero, perché in un ballo in maschera nessuno ha il diritto di rifiutare il travestimento. Se lo fa, anche quella sarà una copertura. Se non lo fa, costui seminerà solo l’angoscia tra i partecipanti.

A presto, Cora” sussurrò Fausto.

A presto” ripeté una voce metallica dispersa nei circuiti “A presto”.

Quando Irene tornò a casa, poco dopo le quattro del pomeriggio, Fausto la abbracciò e le diede un piccolo regalo: “E’ una collanina… misera” disse “Ma non è brutta, vero?

No. Non è affatto brutta, ma non dovevi…” gli rispose la donna osservandosi riflessa nel piccolo specchio dell’ingresso.

Non preoccuparti. A parte il fatto che a questo punto della mia vita ogni gesto è inevitabilmente ridimensionato, in questo caso… mi vergogno un po’, ma la collanina l’ho rubata”.

Irene si voltò di scatto: “L’hai rubata? E perché?” esclamò strabuzzando gli occhi.

Non lo so bene…

Come sarebbe a dire che non lo sai bene?

Sarebbe dire che ancora ci sto pensando” rispose Fausto senza alcuna espressione.

Irene prima sorrise e poi scosse la testa: “Tu sei completamente matto! Ma per caso il tuo male ti sta facendo impazzire?

Chissà… Forse. Ma io sono l’ultima persona in grado di dirlo, quindi mi fido del tuo giudizio. Se tu pensi che sono matto, bene, sarò matto. Se pensi che non lo sono, non lo sarò… Fila come ragionamento?

No!” proruppe la donna “Così mi attribuisci una bella responsabilità!

D’accordo. D’accordo…” la fermò prontamente Fausto “Allora facciamo così: io accetto il tuo giudizio solo a posteriori, dopo le mie azioni incondizionate. Che responsabilità potresti avere? Tutt’al più può essere un’eccellente rompiscatole!

Non ho più dubbi!” esclamò Irene puntando i piedi come una bambina capricciosa “Sei matto dalla testa ai piedi!

E vuoi che vada via, giusto?

La donna si lasciò cadere sul letto coprendosi il viso: “No…” sussurrò “Ma sei strano. Sei entrato nella mia vita come un fulmine. Ieri notte hai voluto fare la parte dello stupratore, oggi mi racconti che hai rubato una collanina. E domani? Ma facevi così anche con Cora?

Fece una pausa, ma non ottenendo alcuna risposta, continuò: “Ne dubito… Lei è così posata! Non ammetterebbe nemmeno un decimo delle tue stramberie!

Stamattina le ho parlato…” rispose Fausto avvicinandosi a quel corpo piegato come un cencio “Ho ripensato a quello che è successo ieri e ho provato un vuoto. Irene, non so se puoi capirmi, ma invece di sentirmi sollevato, mi è venuta un’altra fitta allo stomaco e ho capito che l’unico modo per farla passare era quello di sentire nuovamente l’eccitazione che ho provato con te”.

Ma cosa c’entra Cora con me?

Oh, nulla. L’ho chiamata perché non mi sembrava corretto abbandonarla in quel modo, benché lei non abbia mosso un dito per sincerarsi delle mie condizioni… Ad un certo punto stavo pure per scoppiare a ridere: mi ha detto che mi avrebbe perdonato solo se fossi stato in fin di vita all’ospedale! Quant’è assurda la vita… Soprattutto quando si cerca di pensare l’impossibile sperando che esso non ceda un po’ della sua regalità per tramutarsi in improbabile, ovvero in probabile…

Ma capisci, Cora non aveva alcuna colpa, non era giusto che pensasse delle falsità, né sul mio conto, né sul tuo. Le ho detto solo che avevamo parlato delle tue disavventure e il resto, forse, lo ha capito da sé. Però tu non devi sentirti obbligata. Non lo permetterei! Non voglio che tu comprometta quel po’ di sano che c’è nei vostri rapporti. Perché non la chiami e le dici che ti ho lasciata a casa ieri notte? La potresti… sì, ringraziare, senza nessuno spirito di sottomissione, solo ringraziarla per essersi interessata. Il resto lasciamolo al caso”.

Se fino ad un attimo fa potevo ancora dubitare del mio giudizio” rispose Irene tenendo gli occhi chiusi e la testa affondata nel cuscino “Adesso non ho più dubbi: sei matto!

Ma perché?” protestò l’uomo con fare quasi supplichevole “Io lo dico per il tuo bene!

Senti, lasciamo stare per il momento il mio bene e dimmi piuttosto come diavolo ti è venuto in mente di rubare quella stupida catenina”.

La catenina…” mormorò Fausto “Sì, certo. Anche se prima dovrei rendermene conto io stesso…

Ciò che era accaduto, infatti, non era stato affatto chiaro. Forse i gesti e le apparenze esterne potevano esserlo, ma non di certo le ragioni che si celavano dietro ad essi. Dopo la telefonata con Cora, Fausto si era sentito debole e spaventato; si era lasciato andare su una poltroncina e aveva chiuso gli occhi, tuttavia, invece di passare, il suo disagio era aumentato. Lo stomaco gli pulsava come se un topo fosse intrappolato all’interno e tutti gli eventi delle ultime ore gli parevano barche che scomparivano in lontananza. Prese i suoi farmaci aumentando le dosi e rimase ad aspettare.

Sto morendo, perdio!” pensò “Sarà pure normale un certo disagio! Eppure io cerco una ragione per ogni dolore e per ogni istante di angoscia… Che stupido!

Subito dopo aveva avuto inizio la metamorfosi.

La paura si era scontrata con la realtà e, con la coda tra le gambe, aveva realizzato quanto inutili fossero le sue forme rispetto ad essa. Poi era stato il turno della frustrazione che, nel giro di pochi minuti, si era spostata su un altro desiderio il quale, accovacciandosi con un gatto certosino nella sua mente, aveva cominciato a pretendere sempre maggiori attenzioni. A quel punto, mentre i dolori iniziavano a scemare, Fausto si era reso conto che la notte prima non si era concesso un diversivo, come sarebbe stato facile pensare, ma piuttosto che il diversivo l’aveva posseduto per intero, facendogli credere di essere lui a tenere le redini.

Era stato davvero attratto da Irene? Cora era decisamente più affascinante, ma con lei non era mai accaduto nulla di simile. Neppure i suoi orgasmi erano mai stati così intensi, nonostante avessero trascorso dei momenti di passione ben più lunghi e meglio strutturati. Qual era stata quindi la ragione di quel desiderio così forte? E poi, la causa scatenante era da ricercarsi nell’esile figura di Irene o in qualcosa di ben diverso?

La prima risposta a giungergli fu la seconda: la molla che aveva svegliato quell’impeto non era né la donna in particolare, né il suo sesso in generale. Non era il bosco di notte con i suoi pericoli, né l’immediata disponibilità di Irene alle sue avances. Ciò che aveva acceso la miccia di quell’ordigno era stato l’esatto contrario di tutto ciò: l’assenza di minacce, l’impossibilità di essere scoperto, la lontananza di ogni possibile elemento di disturbo, erano stati gli elementi che avevano contribuito a sbrigliare la sua fantasia oppressa. Non il rischio, quindi, ma proprio la mancanza di rischio!

In quello stato, tra i contorni scuri di alberi, cespugli e spuntoni di pietra, Fausto si era sentito obbligato ad essere il voyeur di se stesso, a commettere il male per poter finalmente giudicare e condannare senza terze parti di mezzo. Egli non aveva goduto dell’atto sessuale mascherato di trasgressività, ma della possibilità, unica nella sua vita, di avere il pieno diritto di scegliere tra bene e male, quale etichetta meglio si conformasse alle sue azioni.

Se Irene si fosse concessa senza almeno far finta di non gradire quel rapporto, egli probabilmente non avrebbe neppure raggiunto l’erezione. Irene doveva rifiutare perché soltanto sottraendosi al panorama della possibilità, lei, in quel contesto che la deprivava d’ogni mezzo di ribellione, sarebbe potuta divenire l’unica causa necessaria della sua eccitazione.

Ma perché egli trovava così sublime l’essere al di là delle regole? In fin dei conti non lo era affatto. Sapeva bene di non potersi concedere troppe libertà, ma non appena questo pensiero affiorava, immediatamente, come un pagliaccio a molla, compariva la risposta: le regole sono fatte per i vivi, non per i morti e coloro che riescono a vedersi come morti che camminano (ovvero chiunque, in linea teorica) sono ipso facto posti in un luogo ove le linee di forza che erompono dai frantumi di legge non possono mai giungere.

Quale rischio avrebbe corso mettendo in pratica il suo nefando potere? La giustizia degli uomini non avrebbe nemmeno avuto il tempo di svegliarsi dal suo eterno torpore e quella divina era basata solo su un condizionamento mentale che Fausto aveva rigettato da tempo. Restava solo il rischio di deteriorare oggetti di cui egli non avrebbe potuto godere in futuro, ma anche questa ipotesi si afflosciava non appena un soffio di vento la colpiva: egli non aveva futuro, dunque nemmeno oggetti dai quali poter trarre godimento.

Quest’ultima considerazione pose fine al suo mal di stomaco e mise in moto un carosello di scempiaggini senza pari. C’era tuttavia un unico neo: come mai egli non provava alcuna soddisfazione? Irene aveva recitato in modo mirabile e la sua prestazione sessuale ne era stata la conferma ma, a distanza di qualche ora, il pallone era completamente sgonfio, come se la tempesta della notte precedente avesse soffiato solo l’aria di qualche gemito e nulla più.

Ho sentito un calore risalire dalle gambe come se tutto il mio corpo fosse in fiamme” disse tra sé “Potrei riprovarci più tardi, ma so già che non sarebbe la stessa cosa… Ci vuole altro. Altro!

In quell’istante capì o, per meglio dire, percepì, che una regola ormai destituita è inerte come un sasso. Si può dunque pensare che essa possa ancora esercitare un discreto fascino? Certo che no! Bisognava spostare l’attenzione su comandamenti sino a quel momento considerati intoccabili. Era indispensabile gettare fuori dal trono ogni caposaldo del buon senso: ecco la chiave di volta!

Girò per il piccolo appartamento in cerca di distrazioni, ma lo spazio era estremamente limitato e così anche ciò che poteva trovarvisi all’interno. Scorse un libro poggiato su una mensola, tra un vaso di plastica rossa e un portaoggetti vuoto. Lo prese: si trattava de L’uomo in rivolta di Camus.

Interessante” pensò “E assolutamente adeguato alla mentalità del suo proprietario…

Lo aveva letto alcuni anni prima e conveniva sul fatto che se l’uomo possedeva una chance di riscatto, quella non poteva che scaturire dalla rivolta. Tuttavia, a dispetto del senso comune, egli non vedeva in essa nient’altro che un rimescolamento delle carte: la vita poteva essere affrontata mille volte, ma l’unica cosa a rimanere costante era proprio il gioco. Si tagliava il mazzo, si risistemavano jolly e re, ma vincitori e perdenti erano già noti ancor prima di iniziare.

Se l’uomo si conoscesse veramente, le partite potrebbero essere terminate dopo aver mischiato le carte. Due macchine non si illuderebbero di avere una possibilità di concreta di cambiare ciò che è sancito dalla natura e condizionato dalle regole…” disse tra sé riponendo il volumetto sulla scansia “L’unica, illusoria chance è quella di ricominciare da capo, sperando come stolti nella comparsa di un fattore ignoto capace di scardinare ogni certezza”.

Gli venne in mente il gioco dello Shangai: ecco l’immagine più azzeccata della sua condizione. Se le carte tentavano di dare una parvenza di ordine allo svolgersi degli eventi, con i bastoncini non si poteva cadere in alcun tranello. Ogni partita era identica, visto che nessuno è tanto acuto da percepire a colpo d’occhio le differenze più sottili tra un mucchio ed un altro. Ovviamente ciò non cambiava affatto lo svolgimento successivo: la partita era già decisa e soltanto la distrazione, la noia o, più semplicemente, la stupidità potevano guidare ad una rimozione errata dei bastoncini.

Sarebbe bello” pensò “Poter perdere una partita contro se stessi. Non in tempi diversi, naturalmente… Credo proprio che l’uomo potrebbe sentirsi davvero forte se fosse in grado di prendere due decisioni discordanti contemporaneamente… Ma che vado pensando? Sto diventando veramente matto oltre che marcio sino alle budella?

Cercò una risposta, ma fallì in ogni tentativo. Scoppiò perfino a ridere osservando la sua immagine trasognata riflessa da uno specchio contornato di biglietti e fotografie. Poi, senza rifletterci più di tanto, si vestì con i pochi abiti che aveva e uscì. Non sapeva esattamente cosa fare, ma capì che restando chiuso in quel piccolo appartamento non avrebbe trovato alcuna soluzione. Prima del ritorno di Irene desiderava recuperare il bandolo della matassa, alla peggio le avrebbe chiesto di recitare nuovamente la parte della vittima indifesa, anche se era certo che l’effetto non sarebbe stato nemmeno paragonabile a quello della notte precedente.

Il paesino pareva l’esatto contrario di Roma: era molto piccolo, tranquillo e tutta la gente sembrava conoscersi. Fausto passeggiò a lungo senza meta, ma ben presto cominciò ad annoiarsi. In meno di un’ora aveva percorso in entrambe le direzioni le due strade principali che dividevano il piccolo centro in quattro quadranti e si era ritrovato nella piazzetta centrale, di fronte ad una chiesa, due piccoli edifici e quattro negozietti: un bar, un’edicola, un emporio di generi alimentari e una macelleria. Anche le persone sembravano sempre le stesse: un gruppetto di anziani signori seduti ai tavolini di un circolo ricreativo, qualche donna che andava a fare la spesa e pochissimi impiegati che svolgevano il loro lavoro.

La cosa più straordinaria fu però la scoperta della filiale di una banca locale che, non soltanto non aveva alcuna guardia giurata di fronte all’ingresso, ma teneva pure la porta sempre aperta, così che i clienti potessero entrare ed uscire senza alcun controllo di sicurezza. Fausto si fermò a pochi metri dai due scalini che conducevano all’interno e rimase ad osservare quella scena senza parole.

Il direttore sta rischiando grosso” pensò ascoltando di sfuggita le chiacchiere di un paio di signori che uscivano “Solo in un posto come questo ci si possono permettere certi lussi… Ma è possibile che nessuna banda di rapinatori abbia mai saputo con quanta facilità potrebbe trovare qui il suo pane quotidiano?

Come un tuono in un pomeriggio d’agosto, l’idea più balzana della sua vita trovò finalmente un terreno fertile dove svilupparsi: non aveva mai rubato nulla in vita sua. Ma perché? Principalmente grazie alle condizioni economiche della sua famiglia. Se infatti si giustifica con tutto il fervore possibile il furto di un disgraziato che deve sfamare i suoi cari, non si può tollerare il doppio schiaffo che il benestante assesta alla società indigente: il primo con la sua immeritata ricchezza e il secondo con l’appropriazione indebita.

Ma esiste un uomo più povero di un moribondo? Quali soldi possono sanare le ferite di un cancro? Le risposte ad entrambe le domande arrivarono contemporaneamente: nello stato in cui versava, Fausto era immune da ogni possibile giudizio e semmai qualcuno avesse osato puntare il dito contro di lui, quale rischio avrebbe corso? La noia di un interrogatorio della polizia? Il carcere? No, di certo! Non si incarcera un uomo in quelle condizioni. Dunque, ancora una volta la legge, un’altra volta, aveva calato le braghe, come soleva ripetere per coronare sarcasticamente i suoi cervellotici ragionamenti.

Ovviamente non pensò neanche lontanamente a rapinare una banca: sarebbe stata un’impresa persa in partenza e, nonostante l’immunità naturale di cui godeva, non avrebbe potuto godere di quel gesto se non per pochi minuti prima dell’arrivo dei carabinieri (che avevano la loro stazioncina a pochi metri dalla filiale). Inoltre, cosa non da poco, il furto in una banca non avrebbe avuto alcun soggetto realmente penalizzato: chi avrebbe pianto per la perdita subita? Il direttore? I contabili? No. Neppure gli azionisti o i soci, perché in quel diabolico meccanismo, il rischio era stato così diluito da non apparire nemmeno alle più attente analisi.

Chiaramente l’obiettivo doveva essere un altro, più modesto, ma con una persona direttamente coinvolta; una persona che non aveva mai avuto alcuna relazione con lui e che, per il solo desiderio di fare e disfare a modo proprio, sarebbe divenuta l’oggetto privilegiato del suo primo esperimento volontario.

Nella strada che spaccava in due il paese da nord a sud, Fausto aveva notato una bancarella in cui erano esposti dei gioielli bijoux di poco valore. Il venditore era un giovane biondo, con i capelli arruffati che gli ricadevano sulle spalle e un’aria costantemente distratta: “Sarà appena uscito dal carcere” pensò con un cinismo che non gli era mai appartenuto “Quella è la persona giusta. Sì, è proprio la persona giusta. Mi sta già antipatico con quella spocchia da playboy miserabile…

Si avvicinò e diede un’occhiata agli oggetti messi in bella mostra: collanine, orecchini, occhiali da sole, copertine per cellulari e poco altro: avrebbe potuto pagare l’intero carico con i soldi che aveva in tasca, ma proprio per questo il furto gli appariva ancora più eccitante. La crudeltà non era nascosta nella quantità, ma piuttosto nella modalità: come nel caso della pesca sportiva, un gesto apparentemente banale e goliardico, diveniva presto un tormento atroce per le vittime.

Persone che passeggiano in un mercato

Non aveva mai rubato nulla e, nonostante l’euforia, si sentì spaventato: quale strategia avrebbe dovuto seguire? La bancarella era isolata e nessuno si avvicinava per osservarla; mischiarsi tra la gente era quindi impossibile. L’unica chance era quella del contatto diretto, con tutti i rischi che ne potevano scaturire.

In gioventù Fausto era stato un discreto atleta, aveva partecipato a molte gare agonistiche e riusciva a percorrere i cento metri in tempi di tutto riguardo. Tuttavia ormai erano anni che non correva e inoltre la sua malattia lo aveva fortemente debilitato: le probabilità di successo non erano altissime, ma rinunciare sarebbe stato molto più doloroso. Si risolse per il tentativo più azzardato: ormai perdere era un verbo scavato nelle viscere dalla realtà.

Il resto successe nell’arco di pochi secondi: adocchiò la collanina più sobria (pensando ad Irene), fissò per un attimo il giovane e, nel momento in cui questi pareva distratto, strinse il pugno e scattò nella direzione opposta. In lontananza udì qualche parola indistinguibile: il legittimo proprietario aveva rinunciato alla lotta e si limitava a maledire a gran voce il più infimo tra i delinquenti.

Sei almeno soddisfatto di questa bravata?” gli chiese la donna rigirandosi quel pezzo di metallo cromato tra le dita.

Fausto scosse la testa: “A te non potrei mentire. Con Cora lo facevo abitualmente, ma lei preferiva le bugie alla verità… Con te è diverso. No!” esclamò con tutta l’enfasi del caso “Non soltanto non mi sento soddisfatto, ma credo pure di aver fatto del male ad un poveretto che neanche conoscevo…

Già…” rispose Irene “E non penso proprio che lui l’avrà presa come me… Intendo nel recitare la parte della vittima”.

Peggio!” urlò Fausto “Con te sapevo che si trattava di una finzione, mentre con lui è stato deprimente! Senza rendermene conto ho scelto la via più difficile, non ho giocato d’astuzia. Ho preso la collanina e sono corso via come un ladruncolo da film… Mi sarei aspettato di essere inseguito, invece quel tipo mi ha solo gridato qualcosa ed è rimasto immobile!

Irene si issò con gli avambracci per vedere meglio l’espressione del suo interlocutore: “Non vorrei deluderti, ma non penso che quella collanina valga una sudata!” e subito scoppiò a ridere ricadendo sul letto.

Sicuramente vale di più di un’automobile assicurata contro il furto” rispose l’uomo andandosi a sdraiare accanto ad Irene “Ma a me il valore non interessa… La lotta è stata impari e l’euforia iniziale è scomparsa di colpo capendo che il ragazzo non aveva nemmeno tentato di inseguirmi. Se non c’è ribellione nel subire il male, quale giudizio posso esprimere io? Che diamine di elementi posseggo per poter decidere se un gesto cade da una parte o dall’altra? No, no, no… Così è tutto sbagliato! Tornerei da quel tipo solo per gettargli la sua collanina in faccia e sfidarlo senza correre via!

Questo te lo sconsiglio di cuore…” gli sussurrò Irene accarezzandolo “…E tu sai che il mio cuore non mente…

Fecero di nuovo l’amore. Questa volta senza parti da recitare né secondi fini. Per Fausto, quell’atto così naturale fu comunque una stranezza tra le stranezze: con Cora non era mai riuscito a seguire il desiderio lungo il cammino tortuoso che lo conduce dalla culla sino al suo sublime supplizio; in genere la “procedura” aveva anticipato ogni possibilità e il piacere era stato sempre dispensato come pastone per i maiali. Irene, invece, continuava ad essere sempre diversa; istante dopo istante, il suo corpo si fletteva ai moti dello spirito e anche nei gesti più banali non si stancava di mostrare quell’unicità che è propria solo dei prodotti di pura fantasia.

Andiamo a cena fuori?” le chiese baciandole la fronte sudata.

Quello che vuoi, ma prima andrò a restituire la collanina” rispose lei stringendosi al suo petto.

Fausto si rigirò più volte, come se nessuna posizione volesse accoglierlo senza riserve. Rispose soltanto: “Sì, forse è meglio…


Depositato per la tutela legale presso Patamu: certificato


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